L'efficacia di un evento
culturale molte volte la si può carpire anche dalla ponderazione che esprimono
il suo titolo ed il suo tema. Affermo questo perché pianificare e progettare,
come in questo caso, manifestazioni artistiche, non è cosa facile: servono
qualità come costanza e serio studio da parte degli organizzatori per evitare
di cadere nella banalità o in mediocri revival, nonché la non scontata capacità
di individuare artisti in grado di affrontare le tematiche che sorreggono tali
mostre. E credo che la rassegna “Vagiti Ultimi”, per il fatto di essere giunta
alla sua IV edizione, dimostrando un proficuo lavoro per veicolare l'arte,
abbia dimostrato di possedere le sopracitate positive caratteristiche.
Anche il nome dell'associazione, corrispondente a quello
della rassegna, dimostra la voglia d'impegnarsi, di fare cultura nonché un
pizzico di fascinosa creatività. Infatti le parole contenute nella locuzione
nominale “Vagiti ultimi” formano un ossimoro che esprime, sì, concetti contrari
accostati tra loro, ma dalle intriganti interpretazioni foriere di
intenzionalità artistiche. Ciò accade perché la figura retorica contenuta nel
titolo acquista una particolarità dovuta alla valenza e al posizionamento
dell'attributo rispetto al sostantivo. L'aggettivo “ultimo”, infatti, usato per
individuare una conclusione di un evento o di un atto, spesso con sfumature
negative, talvolta catastrofiche o senza ritorno, come ad esempio, ne “Gli
ultimi giorni dell'umanità” di Karl Kraus, in cui l'aggettivo enuncia
l'approssimarsi dell'apocalisse sul mondo, nel caso specifico di tale titolo
assume un significato sottilmente diverso e addirittura quasi contrario.
Essendo la sua collocazione posta dopo il sostantivo“vagiti”, che sul piano letterale
indica i primi lamenti dei neonati, simboleggiando dei nuovi principi
nell'arte, l'ideale e generale valenza negativa che esso indica si stempera e
si trasforma, facendo sì che quest'ultimo assuma un significato letterale e
restrittivo in grado di diminuisce la valenza paradossale dell'ossimoro perché
lascia intuire che non si tratti degli ultimi risultati finali dopo una
lunga serie, bensì degli esiti ultimi, nel senso di appena generati o
più recenti in ordine di tempo, che si affacciano nel mondo dell'arte. Infatti
tale nome in questa mostra assume un forte valore retorico: come i vagiti reali
sono i tangibili segni della vita che inizia e principia, così quelli
metaforici indicano la nascita di una nuova opera d'arte che per la prima volta
si mostra al mondo.
Dunque il recondito gioco di parole racchiuso
nell'ossimoro può essere tradotto come la volontà, da parte dell'associazione,
di mostrare al pubblico le più attuali esternazioni della creatività, ma non in
modo casuale, bensì coinvolgendo gli artisti attorno ad un tema intrigante ed
apportatore di interessanti prove, come testimonia il titolo stesso della
mostra “8 Cadimi addosso”. Quest'ultimo vede l'unione di un numero e di una
locuzione che nasconde metaforicamente il vero senso della mostra che gli
artisti sono chiamati ad interpretare: il bisogno di equilibrio. Certo, ci sono
svariati settori del sapere umano che definiscono l'equilibrio, come la fisica
o la chimica, ma credo che in merito alla specificità della mostra, e con
particolare riferimento al numero otto ritenuto simbolo dell'armonia
universale, esso sia da ritenersi come uno stato in cui ogni cosa è al giusto
posto, partendo dalla natura per giungere all'uomo. E' chiaro che questo ha
innata in sé la necessità di mantenere saldo il suo baricentro sia interiore
che esteriore, ma quando si lascia traviare dalle futili contingenze, perde
l'armonia e si incammina verso l'autodistruzione. L'arte pertanto, grazie al
suo potere educativo, alla sua evocatività ed alla sua capacità di stimolare
pensieri e dialoghi, riveste un ruolo sostanziale per evitare questi
sbandamenti da parte dell'uomo.
E per capire come gli artisti che presenziano a questa
mostra manifestino, in base alle loro caratteristiche, una particolare
attenzione al concetto di equilibrio, basta osservare le loro
produzioni/realizzazioni, a prescindere dal fatto che siano state realizzate
con modalità e mezzi appartenenti alla tradizione o alla sperimentazione.
Infatti in tutti i lavori si evince subito che il significato che ne emerge è
pregno di senso intellettuale mentre il significante non ha nessuna rottura o
disarmonia percettiva e sensoriale fra le parti che lo compongono.
Anche sul piano della ricerca ideale, ogni artista offre
un panorama espositivo che lo colloca dentro le tre sostanziali categorie che
da sempre, sebbene generino apparenti contrapposizioni, armonizzano il mondo
dell'arte, anche già in un semplice rapporto di comparatività. Tali categorie
sono: la prima intimista, volta a concentrare l'attenzione sulla dimensione
soggettiva o interiore e sugli aspetti, spesso quotidiani, dell'esistenza; la
seconda sperimentalista, protesa a provare, verificare e fondere nuove
concettualità ed espressività rendendole funzionali e valide; la terza sociale
o sociologica, intenta ad indagare le interrelazioni e le organizzazioni della
società in cui viviamo nonché il rapporto tra essa e l'individuo e svelarne
cause, effetti, pregi e difetti. A conferma di quanto enunciato, basta
confrontare i percorsi intellettuali di molti artisti, come, ad esempio, Franco
Costalonga, Oddino Guarnieri e Santorossi (l'elenco potrebbe proseguire), i
quali pur avendo dialettiche diverse, manifestano serie e robuste
consapevolezze artistiche. E' però doveroso ricordare che tali tipizzazioni non
sono rigide e chiuse, ma anzi l'una non può esistere senza le altre e tutte fra
di loro si possono intersecare, sovrapporre ed aggregare. Queste peculiarità
sono riscontrabili pure nei partecipanti alla IV edizione di Vagiti Ultimi
perché, secondo le volontà e le necessità interiori o pratiche, essi decidono
di far prevalere l'una sull'altra oppure, se indispensabile, le fondono in un
costrutto amalgama.
Restringendo ancora il campo, potremmo affermare che
questi artisti, nella piena e saggia libertà dell'arte, sciolta da futili
discorsi come la contrapposizione tra passato e moderno, grazie alla loro
indispensabile onestà intellettuale, al serio impegno ed alla
modalità/strumentalità creativa, vicina alla sperimentazione intellettuale
(intesa come pensiero) o alla riflessione intellettuale a sua volta declinata
in soggettiva-interiore e oggettiva-esteriore, hanno un'occasione per mostrare
ai visitatori le loro valenti opere senza cadere in stucchevoli provocazioni o
reiterati passatismi.
L'artista che inaugura la corrente sperimentalista, protesa
a trovare nuove espressività in cui anche la scienza diviene mezzo e non fine
per veicolare messaggi è il politecnico Marco Ulivieri, il quale vede
l'arte come possibilità per ricreare e cimentarsi con l'inconsueto e la novità.
E per attuare questi suoi intenti egli si serve di una personale concettualità
programmata, costituita da atti creativi, e di una intenzionalità
tecnico-esecutiva salda, quasi scientifica (basti pensare che crea i suoi
lavori tramite le oscillazioni di un pendolo che deposita quarzite sul
supporto) dalla quale trapelano rimandi allo spazialismo e all’Optical Art. Il
soggetto di questo artista è dunque una forma/struttura che si palesa
attraverso rappresentazioni di linee, curve, spirali, cerchi e moduli le quali
si accostano, si compenetrano o si fondono tra di loro secondo un ritmo
codificato in cui tutto è condotto con coerenza, bilanciamento tra le parti,
attenzione agli equilibri ed alle assonanze visive. Egli riesce perciò a creare
nelle sue opere rapporti perfetti impostati sulla percezione tangibile di uno
spazio algido ed astratto e sul senso del tempo che scorre circolarmente,
tendendo in tal modo a far cogitare il fruitore sui concetti universali. Come
l'artista precedente anche il poliedrico gruppo Star Node interpreta la
genialità come possibilità per ricreare e sperimentare. Il collettivo artistico
si allontana dall'idea di soggetto rappresentato, inteso come contenuto
riconoscibile e sedimentato, per concentrarsi sulla realizzazione di un
“prodotto” creativo nel quale emerge la valenza tematica gestuale
dell'atto/momento artistico. In tal modo reinterpreta sia la mimesi visiva
(intesa come svelazione) che il concetto di supporto, non più inteso come
dispositivo o elemento avente lo scopo di sostenerne altri, fissandone nello
stesso tempo rigidamente la posizione. L'opera d'arte si trasforma
conseguentemente in una sapiente orchestrazione eseguita dall'insieme di
artisti, composta da una costrutta sintesi tra svariati settori del sapere
umano, quali la scienza e la tecnologia, ed espressività artistiche, come la
musica, il tutto racchiuso da una azione performante complessiva che coinvolge
sul piano esecutivo non solo i creatori, ma, spesso, anche il pubblico. Un
accordo armonizzato, che, avvalendosi sul piano esecutivo delle potenzialità
offerte della contemporaneità, come ad esempio mezzi e strumenti tecnologici
dalle enormi potenzialità come il computer, tramite la percezione sensoriale
mira a sollecitare la sfera emozionale e recondita di chi osserva e/o partecipa
alla performance da lui concepite.
Alla sezione intimista, nella quale l'artista usa la
propria sensibilità per indagare o soggettualizzare l'interiorità propria o
dell'umanità tutta, evidenziandone peculiarità e incongruenze, aderisce il
gruppo più numeroso dei partecipanti all'esposizione.
Il primo, in ordine alfabetico, ad inserirsi in questa
propensione ideale declinandola poi in ricerca, e decodificandola in dialogo
creativo è Valerio Anceschi. Infatti per lui il creatore ha un compito
ben preciso: così come l'arte certifica il mutamento umano, allo stesso modo
l'artista muove ed origina forme in divenire, sospinto da un anelito inconscio.
Si genera pertanto una similitudine che fa emergere una relazione intrinseca tra l'Io recondito
di Anceschi e la vita che nel suo scorrere dissemina indizi sensibili. Le
flessuosità, le curve, le spirali, le iperboli ed i grovigli generati dai suoi
metalli che, esili e leggeri fluttuano e vibrano armoniosi nello spazio con le
loro evoluzioni, testimoniano come l'artista attribuisca al concetto di
movimento una duplice funzione: la prima, soddisfare i suoi desideri di
artefice; la seconda, far sì che esso divenga simbolo pregno di evoluzione
biografica che colpisce chi guarda le sue opere. Lo spettatore allora sarà in
tal modo portato a riflettere non solo sull'oggettività dell'opera, ma anche
sul senso vitale che questa racchiude. Anche Sebastian Bieniek cerca di
dare ordine all'intima spiritualità dell'essere umano, di liberarlo dalle
contraddizioni e dai paradossi che lo assillano in quest'epoca contemporanea.
Però invece di usare grandi costrutti nei quali, spesso, si è traviati da
esagerate complessità, che rendono poco evidente il messaggio, l'artista si
serve della semplicità: egli usa una grammatica visiva comune e chiara che
sembra fatta per un mondo infantile, ma in realtà è finalizzata a rendere
l'immagine comprensibile. Questa semplicità quasi giocosa, basata sulle piccole
cose, è tuttavia apparente, perché sul piano elaborativo è frutto di un'attenta
progettazione, tesa comunque a far interagire riflessivamente le persone. Le
sue foto ci mostrano ritratti surreali di artificiosi doppi volti (osserviamo
ad esempio gli occhi: uno è reale in quanto appartiene alla persona ritratta
mentre l'altro è simbolico perché disegnato sulla faccia di essa) che ci
interrogano paradossalmente sia su concetti negativi, quali la doppiezza,
l'incoerenza, l'instabilità interiore dell'uomo, sia sulla necessità di
ricostruire dialogo (nel senso etimologico
del termine) tra le due facce: quella dipinta metaforica e quella reale
esteriore. Solo ripulendo la sua anima, l'uomo sarà in grado di dare armonia
alla propria coscienza.
Parimenti la poliedrica e sperimentalista Lia Cavo,
con le sue sculture ed installazioni ambientali, si muove all'interno di
istanze collettive, indagando l'oggettività che la circonda, concentrandosi
sulle tematiche sensibili dell'uomo e cercando di dargli non delle risposte
inappellabili ma delle sollecitazioni che facilitino la sua analisi interiore.
L'artista realizza opere costituite da elementi antropomorfi, nelle quali i
surrogati del corpo umano, i prodotti della società ed il mondo animale o
vegetale si compenetrano creando un unicum, capace di dilatarsi nello spazio a
seconda delle dimensioni e dotato di forti valenze simboliche, in quanto assolute,
anzi soprattutto allegoriche. Infatti queste ultime infondono ai lavori un
significato più profondo, nascosto e connotativo in grado di sollecitare il
dato riflessivo. Dunque, Lia Cavo vuole sollecitare non tanto il raziocinio
quanto l'introspettività dell'osservatore che si relaziona alle sue ammalianti
opere, evocando in lui sentimenti, desideri e senso d'identità.
Sempre in tale categoria ma con diversa sfumatura, si
notano le riminiscenze alla statuaria antica presenti nelle sculture di Alba
Gonzales, che inducono l'uomo contemporaneo a meditare su come ancora oggi
il gusto per il classicismo, quando diviene mezzo espressivo ideale e pratico,
necessario per palesare e concretizzare le aspirazioni intellettuali degli
artisti nonché veicolare messaggi che penetrano in profondità nell'animo, sia
ancora attuale e non si riduca solamente
a muta e stantia reiterazione. Infatti l'intrigante fusione tra le matrici
arcaiche e mitologiche, da una parte, e
modalità espressive realistiche, simboliche ed a tratti surreali, dall'altra,
di cui le opere della scultrice sono intrise, le scioglie dal solo dato
estetico per trasformarle in rappresentazioni di latenti valenze dai rimandi
interiori e psicologici (non psicoanalitici) capaci, però, di penetrare
nell'inconscio del fruitore e di indurlo ad indagare su se stesso e sulla sua
esistenza. In tal modo, Alba Gonzales induce colui che ammira le sue statue a compiere un atto di consapevolezza, o meglio
di pensiero, e tentare di comprendere i propri enigmi fatti da paure, angosce e
desideri per cercare di liberarsi ed intravedere una possibilità di
miglioramento. Anche la scultrice Luisa Elia indaga le recondite
sfaccettature dell'anima attraverso la materia. Quest'ultima è stata
trasformata dall'artista, per decodificare le sue istanze ideali, in metafora:
così come la vita in base alle sue vicissitudini si mostra mutevole, allo
stesso modo la materia, grazie alla sua variabile malleabilità, può esprimere
le alterne vicende dell'uomo. E' chiaro che l'artista si allontana dal realismo
figurale per addentrarsi in un nuovo ambito in cui prevale la mutazione della
struttura che sostanzia il messaggio, il quale vira verso una simbolizzazione
delle opere, facendo emergere, da un lato, la consistente e variegata
modellazione sulla plastica, talvolta vicina alla modularità, e, dall'altro,
una nuova definizione del rapporto materia-forma. Questa assume perciò
connotazioni archetipiche, da intendersi come idee innate e predeterminate
dell'inconscio perché provenienti dalla mitologia primitiva, ed ancestrali, in
quanto espresse istintivamente dall'uomo sin dai suoi primordi. In tal modo
l'artista dà vita ad una sorta di “scultura viva” che ha il compito di colpire
la psiche più recondita dello spettatore inducendolo a pregne, lontane ed
ataviche riminiscenze che lo invogliano ad interrogarsi sul suo Io passato,
presente e futuro. Chiude il gruppo di questi artisti che scrutano lo spirito
umano ed i suoi risvolti, il pittore Lillo Messina. Egli però, a
differenza degli altri, non disamina le relazioni tra il dato interiore e
quello esteriore, ma dà vita ad un mondo di evasione, nel quale l'uomo può
estraniarsi dalla realtà, spesso costellata da drammi e crasi, per rifugiarsi
in un trasognato luogo-spazio che gli permette di ritrovare la catarsi,
rifocillare la sua anima e recuperare nuovo vigore per affrontare le burrasche
della vita. Le sue forme astratte, dai tratti curvilinei ed impostate su colori
plastici e squillanti, si trasformano in una sorta di isole atlantidee sospese,
e al contempo immerse, in infiniti sfondi composti da onirici cieli e/o mari
dal consistente substrato narrativo. Tutto invita a travalicare la realtà per
compiere un periplo interiore, nel quale i dipinti stessi divengono suggestive
tappe. Una sorta di rifugio quindi, permeato da luci e colori mediterranei,
dalle atmosfere trasognate e surreali intriso, da un lato, di echi e
riminiscenze biografiche, che costituiscono il substrato, e, dall'altro, di
fantasia che emana una gioiosa felicità in grado di far svagare colui che
contempla i quadri infondendogli, allo stesso tempo, stupore, digressioni e
fascinazioni fiabesche.
Alla partizione di ispirazione sociologica, in cui gli artisti
usano la loro creatività per tentare di decodificare i cambiamenti della
modernità collettiva, aderisce il versatile Luciano Luporetti, il quale,
con protesa ed intensa azione intellettuale, vuole rappresentare il mondo
contemporaneo in tutti i suoi aspetti, paradossali o meno, avvalendosi di una
espressività impostata su un sapiente amalgama composto da tratti figurativi,
simbolici, intesi come apertura di senso, surreali e, talvolta, favolistici.
Egli infonde alle sue opere una narratività tale che esse divengono intreccio
di vicende in cui i soggetti sono l'uomo e la
vita. Da ciò si deduce che l'artista vede l'arte come mezzo educativo
per svelare, tramite le metafore dai rimandi letterari-favolistici-fiabeschi,
le verità nascoste e le incongruenze umane e sociali. Ma non solo. Luporetti
vuole far meditare l'osservatore sulla propria condizione interiore e sul suo
rapporto con il mondo in qualità di individuo collocato all'interno di una
comunità, offrendogli degli spunti di riflessione (basti pensare all'ampia
gamma di riferimenti che partono dal mito antico e giungono alla mercificazione
e massificazione attuale) fuori dal tempo e dallo spazio in grado di
allontanarlo dal pensiero comune artefatto ed apparente, per fargli cogliere e
comprendere le verità nascoste e, allo stesso tempo, reali.
Concludendo,
è doveroso ricordare che la rassegna è nobilitata da un contesto ricco di
storia, arte e cultura come quello della città di Atri, splendido gioiello
abruzzese incastonato su una collina dalle atmosfere antiche, che si presenta
al pubblico snodandosi nei suggestivi ambienti delle Scuderie del massiccio
Palazzo Ducale (edificio del tardo Trecento sorto su resti romani). I locali in
cui si svolge l'esposizione sono un susseguirsi di stanze sotterranee costruite
con solide roccie e dai soffitti culminanti in volte, scelte dall'associazione
perché luogo storico ed evocativo ideale per accogliere il percorso
intellettuale della mostra ed unire così, in un insieme sinergico, l'antico
passato della città con i “vagiti ultimi” della sua cultura cosmopolita
contemporanea.