domenica 6 marzo 2022

Duccio di Buoninsegna - Madonna con bambino

Alla vista di questo capolavoro, parafrasando parte del nome, più che "Buoninsegna" vien da esclamare: "Bellainsegna"!

    Realizzata probabilmente per una committenza religiosa privata, ad uso devozionale, questa Madonna con bambino si inscrive all'interno di quella personale variazione iconografica della tematica religiosa inventata dal grande artista senese, con la quale egli ha saputo creare un raffinato ed equilibrato amalgama in cui si ritrovano echi bizantini, rimandi cimabueschi, riferimenti gotico-cortesi e, sul piano esecutivo, esempi di miniatura che egli non ha esitato ad inserire in base alle proprie esigenze artistiche. 

    Infatti, si riscontrano sorprendenti somiglianze stilistico-esecutive se si compara l'opera in oggetto con la "Madonna di Crevole", databile tra 1283 e 1284 (sono diverse la raffigurazione pittorica del volto del bambino e la posizione del suo braccio destro, la cui mano accarezza il volto della madre), con la "Madonna in trono con bambino e sei angeli", con il "Tritticetto di Londra", entrambe dipinte tra il 1300-1305 e, soprattutto, con la "Madonna Rucellai" commissionata nel 1285 (la cui sostanzialmente unica divergenza si evidenzia nella posizione della mano destra della Madonna che regge il bambino) con la quale, tenuto conto pure delle dimensioni e dell'uso dei clipei, condivide anche il motivo geometrico, impostato sull'alternarsi di rettangoli e cerchi. Si può quindi ipotizzare che questa stupenda "Madonna con bambino" si collochi all'interno della produzione del maestro senese tra il 1285 e il 1290. 

L'impostazione triangolare della Madonna, seduta al centro e posta di tre quarti in leggera posizione prospettica, mentre sorregge sul lato sinistro il Gesù Bambino, e lo sfondo dorato del riquadro donano alla composizione un'equilibrata aura di religiosità. Maria si mostra avvolta dal freddo blu opaco e profondo del manto, raffigurato con un'unica campitura e con piccoli accenni di pieghe, impreziosito sugli orli delle maniche e del collo da graziosi decori, per altro ricorrenti in altre madonne, impostati sull'alternarsi di motivi romboidali, forse variazioni del motivo a losanga bizantina, e di liberi segni, dai tratti quasi floreali vicini alla grazia cortese, che delimitano così i pochi stralci del rosso della veste sottostante. I toni quasi perlacei del delicato incarnato del viso della Vergine mettono in risalto il roseo colore delle gote e della piccola e carnosa bocca, per altro anche enfatizzata da un colpo di luce che delinea pure il piccolo mento. Una leggera prominenza ricurva posta all'attaccatura della lunga linea curva del naso con il sopracciglio destro accentua la profondità, e quindi la plasticità, del volto. La tristezza dello sguardo, che sembra presagire il doloroso futuro che aspetta il figlio, accentuato dalla leggera inclinazione del capo, delle labbra, delle sopracciglia e dei bulbi oculari contribuiscono a donare un senso di umanità alla Vergine.

    Se la Madonna si mostra quasi completamente chiusa nel suo mantello tanto da apparire con ciò smaterializzata nella sua essenza divina, per altro priva del bizantineggiante maforion, Gesù, il cui volto riprende su piano esecutivo quello della madre, appare quasi più corporeo nei tratti ed è raffigurato con una veste bianca dalle pieghe accentuate e lineari oltre che con un variegato e mosso velo dai toni rosati declinati verso il violaceo, che ne avvolge il corpo, nel mentre con la mano sinistra ne sta trattenendo un drappo cascante e con la destra sembra benedire un ideale osservatore posto alla sinistra del dipinto. Il modo in cui sono stati eseguiti i particolari anatomici, come ad esempio la capigliatura, leggermente stempiata, nonchè la plastica del corpo e l'autorevolezza della posa mostrano come l'artista abbia saputo fondere i rimandi della classicità, dai tratti quasi scultorei, con il senso di umanità, elemento di novità nell'iconografia del tempo. 

    Vista la massima importanza sul piano religioso e teologico dell'opera, le teste dei due personaggi sono impreziosite dalla presenza delle aureole. Entrambe sono state incise sullo sfondo dorato con una sottile puntinatura, ma all'interno di quello della Vergine si notano delicate decorazioni composte da geometrie, rigature e forme floreali che testimoniano, oltre ai rimandi gotici, la grande perizia e raffinatezza, quasi da miniaturista, dell'artista.

Osservando il dipinto, sembra che Duccio senta l'esigenza di connubiare, e forse anche andare oltre, la bidimensionalità, rappresentata dal blu del manto di lontana matrice bizantina, con una maggiore tridimensionalità corporea e la raffinatezza gotica. Lo sguardo della madre, rivolto verso lo spettatore, quello del figlio, la posizione di tre quarti della Madonna nonché il sapiente gioco delle mani dalle lunghe e affusolate dita (quella sinistra, in primo piano più robusta per sorreggere il bambino, e quella destra, più sottile ed elegante, entrambe dai colori decisamente più umani rispetto a quelli del volto), unitamente alla forma del collo leggermente voluminoso e all'inclinazione del capo della Vergine, creano uno spazio prospettico che rafforza la tridimensionalità e, conseguentemente, la loro dimensione corporea e umana delle figure. Anche alcuni particolari come, ad esempio, la posizione dei piedi sovrapposti del bambino o il marrone scuro dell'interno delle maniche del manto della Madonna contribuiscono a smorzare la piattezza generata dalla luce frontale in favore di una maggiore profondità.

Ora di proprietà di un mecenate dell'arte, l'opera è giunta sino a noi in buono stato di conservazione. Il retro della tavola, percorso orizzontalmente da un traverso che ne impedisce la curvatura, presenta alcune mancanze di materiale lungo il lato sinistro, ma la parte frontale nel suo insieme si mostra ancora sostanzialmente integra e, nonostante i sette secoli trascorsi, con pochi segni del tempo.

Siro Perin [siroperin@yahoo.it]

domenica 29 marzo 2020

Giuseppe Fogale

Il paesaggismo, nel corso della storia della pittura, è una delle modalità espressive più espressive. Assieme al figurativo, legato alla rappresentazione della figura, il paesaggio ha  permesso all'artista di rappresentare vivamente quell'universo di emozioni, stati d'animo e riflessioni  che albergavano nel suo Io più recondito. E per rendersi conto di questo, basta osservare, accostati,  accanto l'uno all'altro,  uno scorcio romantico e una visione iperrealista. Entrambi, pur agli antipodi sul piano iconico, ci mostrano quanto può essere ampio il ventaglio dell'intenzionalità creativo-ideale presente nella mente di un pittore. 
Anche l'opera di Giuseppe Fogale non può non inserirsi all'interno di questa gamma di modalità rappresentative. Egli infatti si protende verso il paesaggio secondo la classica maniera all'italiana, in chiave  romantica: ogni sua tela si presenta luminosa, gradevole, caratterizzata da un pittoresco accogliente e piacevole, intrisa di ricordi e atmosfere sensibili che fanno emergere sensazioni felici nello spettatore; non solo, nei suoi lavori si respirano anche le arie e i colori delle stagioni che caratterizzano lo scorrere dell'anno. Ma oltre queste caratteristiche, che potremmo definire per alcuni aspetti oggettive, emergono anche quelle peculiarità soggettive che rendono unica e personale la pittura di Giuseppe Fogale. Egli infatti infonde ai suoi lavori una sorta di dato geografico che, oltre ad accompagnare l'afflato emozionale e la dimensione intimistica, rappresenta e identifica in modo contestualizzato uno scorcio che appartiene alla quotidianità e al vissuto del pittore stesso. Ciò è confermato anche dalla cura dei particolari che caratterizzano ogni dato posto, come testimoniano la dettagliata rappresentazione delle specificità persino geologiche dei diversi gretti in cui scorre l'acqua, le tipologie di piante che adornano gli argini o, nel caso di vedute collinari, le rappresentazioni di vecchi casolari e edifici tipici nonché l'increspatura e l'inclinazione delle colline! Ma non è tutto. Anche la captazione della luce e la modalità con cui viene distesa e dosata all'alterno del dipinto, sottolinea l'unicità del luogo, come si evince confrontando, ad esempio, le diverse percezioni atmosferiche presenti nella “Veduta di Chioggia”, dalla luce tersa, quasi opalescente, con il “Piccolo scorcio del Sile” dalle arie languide e silenziose. E osservando attentamente la pennellata, un tempo più crepitante e vibrata da piccoli tocchi e ora più fluida e sinuosa,  si  può intuire addirittura l'evoluzione tecnico-esecutiva dell'artista. 
I pini, i salici, le acacie, le acque, le rocce e i colori della terra, o sarebbe meglio dire ogni singolo elemento della natura, sono dunque, come direbbe G. D'Annunzio, stromenti nelle mani di Giuseppe Fogale che egli permettono di trasformarsi, interpretando l'opera di Franco Arminio, in uno speciale paesologo, il quale invita l'osservatore a “Incontrare e raccontare i paesi ed i luoghi, percepiti” e dunque ad immergersi e a farli propri.





Roberto Furlan

Le opere di Roberto Furlan sono da intendersi come una sorta di pagine di un diario biografico sul quale egli racconta le sue  elucubrazioni, fatti, e storie e che hanno colpito. A conferma di ciò, basta leggere i  titoli che egli appone alle sue opere tra i quali spiccano “Labirinto”, “Lievitazione”, “sotto Pelle”, “Germoliato” e “Ricami di mia madre”. Ma, come balza all'occhio osservando i suoi lavori, si comprende subito che questo diario composto da immagini, non è stato “ scritto” usando lo strumento classico del pennello e della rappresentazione realistica, bensì  sono create attraverso l'ausilio di una sua personale esecutività che si avvale della tecnica mista, tra cui spicca l'uso del tessuto, che origina delicate trasparenze fatte di luci e colori. Queste ultime divengono dunque il mezzo visivo, ma soprattutto ideale con cui l'artista crea le pagine di questo diario e sono da intendersi come una grafia personale che tocca le corde più profonde dell'anima del artista. 
Per comprendere al meglio le opere, vista la loro iconografia, di  Roberto Furlan non basta solo osservarle attentamente, ma bisogna, leggendo il titolo e interpretarle secondo  la  propria sensibilità.  Solo in questo mdo quelle particolari campiture di colore  inizieranno parlarci. Non bisogna quindi avere un approccio razionale, bensì emozionale fortemente interiorizzato, anche perché queste striscioline di luminoso pigmento non sono disposte in modo casuale, ma rispondono ad un ordine ideale e spirituale, frutto dell'incoscio dell'artista , che a volte sembra assumere  aspetti quasi modulari che si riscontrano in opere diverse.    

Lorella Bertuol

E' proprio vero che l'arte può riservare infinite e gradite sorprese. Essa infatti è come l'amore: ti colpisce quando meno te lo aspetti, senza tener conto dell'età o di nessun'altra cosa, facendoti provare emozioni e sensazioni “forti”. Ma c'è di più! Questo innamoramento è così intenso da portare con sé anche una sorta di carica taumaturgica spesso capace di alleviare anche i momenti più negativi della vita e di  donare la forza per andare sempre avanti. Ciò accade perché l'arte è così inferenziale alla biografia dell'artista da determinarne le azioni, le volontà e, spesso, il destino. Anche la vita di Lorella Bertuol si è incrociata con l'arte, sia sul piano umano che su quello ideale, tanto che le ha permesso di superare sul piano emotivo un periodo buio del suo vissuto e le ha fatto incontrare l'eclettica pittura di Giovanni Boldini, affascinandola letteralmente. L'amore per l'arte le ha quindi permesso di ritrovare l'allegria, la felicità, la gioia di vivere e il desiderio di fare. 
Grazie ad una personale interpretazione del colore, Lorella Bertuol è riuscita sia a concretizzare sulla tela questa positività che l'ha pervasa, sia a liberare la propria fantasia e la propria curiosità. Così facendo, la pittrice ha iniziato un lento percorso creativo, fino a ritornare indietro nel tempo all'età di quando era bambina in cui i ricordi, le esperienze e l'universo immaginario scatenavano in lei non solo l'immaginazione o il sogno, ma permeavano le cose più semplici e quotidiane di rimandi sensibili dai tratti simbolici. Non è un caso quindi che il soggetto ideale che guida la sua produzione pittorica, siano le sue damine. Queste ultime sono infatti da leggersi, oltre che come oggetto che ricorda la fanciullezza, quale materializzazione allegorica di uno stato d'animo interiore, da cui trapelano emozioni. E per avere conferma di ciò, basta osservare i grandi occhi delle damine che affascinano l'osservatore con il loro sguardo intenso, ammaliante, enigmatico e senza tempo nonché  l'uso di una pennellata dinamica, lunga, guizzante che accentua ancora di più questo senso di ritroso nel tempo, tanto che si respirano atmosfere dai tratti ottocenteschi.
Sulla scorta di quanto scritto poc'anzi, appare chiaro che l'intento della pittrice è quello di poter condividere con noi la possibilità di evadere dalla vita contemporanea, attanagliata  dalle  contraddizioni e dalle  negatività, per rifugiarsi in un mondo altro, fatto di sogni e ricordi nel quale possiamo rigenerarci, godere delle emozioni e, come afferma ella stessa, immaginare un mondo migliore

Lucia De Colle

Parlando con Lucia De Colle si comprende subito come per lei il percorso artistico non può essere disgiunto dalla biografia dell’artista. E per avere la conferma dell’importanza di questo legame, oltre alle sue parole, basta camminare tra le innumerevoli opere del suo studio. La sua carriera e, soprattutto, la sua creatività suono dunque il frutto, come afferma ella stessa, di “...esperienze personali cioè del proprio vissuto, emozioni, incontri importanti (di persone di valore), avvenimenti…”. Importanza capitale assume poi quanto scritto tra le parentesi: non basta conoscere e praticare artisti per mettersi a dipingere, bisogna che questi siamo artisti con la “A” maiuscola e perciò in grado di dialogare e trasmettere contenuti pregni, pena la perdita di tempo e l’inutilità creativa di chi li frequenta. E le tracce evidenti di queste fruttuose relazioni culturali intrattenute dall’artista sono da sempre presenti in ognuno dei suoi lavori. Questi ultimi infatti sono da intendersi non come un diario omogeneo, bensì come una composita e variegata miscellanea in cui ogni opera manifesta tangibilmente la sedimentazione degli input che hanno segnato l’evoluzione creativa dell'artista. E’ palese quindi, che per Lucia De Colle l’arte assuma una funzione conoscitiva ed esperienziale protesa a scandagliare il legame che si forma tra l’io dell’artista e la vita che lo circonda. La versatilità tecnica, il ricorso ai più disparati supporti e materiali e la varietà soggettuale presenti nei suoi lavori sono la conferma tangibile di come la carriera si muova in questa direzione analitica del suo vissuto. Ma non è tutto. Parallelamente a queste relazioni sul piano umano e a questi scambi artistici, Lucia De Colle ha usato la sua creatività per indagare l’uomo. Egli, infatti, è stato il soggetto ideale che fa da sfondo al suo operare. Anzi, è divenuto il mezzo simbolico che le ha permesso di indagare la realtà circostante sotto molteplici aspetti: umano, relazionale, religioso, culturale ed artistico. L’artista, forte anche delle sue conoscenze tecniche, ha creato una sua personale visione di questo uomo-simbolo che, trovandosi in bilico tra realismo e stilizzazione astratta, le permette di cogliere ed esprimere in modo ancora più pregno le sue istanze sia ideali che creative.
La mostra che si inaugurerà  presso la galleria “L. Sturzo” a Mestre offre l’occasione di comprendere come Lucia De Colle, sebbene sia un’artista dal piglio introspettivo, attraverso le sue opere desideri porsi in ascolto della realtà, nel tentativo di offrire all’osservatore il proprio punto di vista su ciò che la circonda.

Giampaolo Minotto

L’artista  Minotto è una bella sorpresa.  Inserito nel filone naturalista e post impressionista veneziana, prende ispirazione e spunto da quella bella schiera di artisti che a Venezia contava  personalità come Neno Mori, Carlo Dalla Zorza, Marco Novati , Seibezzi, Domestici e tanti altri attivi dagli anni trenta agli anni ottanta del Novecento. E’ una linea di espressione  artistica che a partire  dagli anni 50 in poi patì l’avvento delle avanguardie artistiche che, a parte l’esperienza futuristica , in Italia poterono prendere piede  solo a partire dal secondo dopoguerra.  Ma l’arte naturalistica non è mai morta. E molte sono le persone che hanno continuato a  produrre e amare comunque la pittura di paesaggio . Il tempo è galantuomo diceva l’adagio…e ora che siamo inoltrati nel 3° millennio capiamo quanta straordinaria umanità abbia potuto esprimersi comunque, superando i tempi delle ideologie, delle supposte rivoluzioni  con  semplicità, coltivando l’arte e la bellezza  con la pratica della pittura di paesaggio.
I soggetti preferiti da Minotto sono paesaggi, angoli di natura o di verde urbano scelti con  affetto, semplici soggetti, non eclatanti, rivelano i sentimenti dell’artista
Incline a trovare il bello non nei luoghi deputati, luoghi storici o di  meraviglia, dei quali la nostra regione eccelle,  eclatanti si ma un po’ scontati,  ma nei luoghi del quotidiano, quelli che l’artista vede e vive, che eleva, dei quali ci svela la segreta bellezza.  

La Fabbrica del Corpo

Finalmente la mostra itinerante dal titolo “La Fabbrica del Corpo” ha fatto tappa anche a Mestre. I girovaghi lavori di questo metaforico “Giro d’Italia” della cultura sono stati esposti presso la grande sala della galleria L. Sturzo. Ma non si sono vinte coppe, medaglie o altro, e neppure c’era il pubblico festaiolo, munito di girandole, delle grandi occasioni a presenziare all’arrivo, bensì all’inaugurazione erano presenti attente persone desiderose di comprendere quale messaggio si celasse dietro questo titolo così accattivante e come esso si rapportasse alle opere esposte. Infatti la tematica che collega tutta la mostra non si sostanzia, come si potrebbe pensare in modo equivoco ad un primo colpo d’occhio, sulla sola rappresentazione del corpo umano in chiave stilistica, bensì sull’interpretazione di esso quale mezzo per indagare la realtà. E per capire questo, è necessario partire proprio da una ulteriore interpretazione del titolo stesso. Bisogna infatti accostare sul piano lessicale, la parola “corpo” ai due sostantivi “costruzione” e “decostruzione” per entrare appieno nel senso della mostra. Queste due parole sono il motore che genera un dualismo interpretativo tale da spingere i pittori a realizzare le proprie opere. Ma non è tutto. Se si trasformano i due sostantivi in verbi, “costruire” e “decostruire”, c’è ancora qualcos'altro di importante che emerge: la volontà di azione da parte dell’uomo.  Infatti quest'ultimo, quando ha l'intento ed il proposito di costruire qualcosa, riesce ad esprimersi tramite la fabbricazione materiale di un'opera d'arte; invece quando l'essere umano si atteggia a divinità, trionfa la decostruzione del mondo e perciò di se stesso. 
La mostra dipana dunque visivamente questa divisione tra positivo e negativo, inerente il concetto di corpo-uomo contenuto nel titolo. In questo senso, la propensione al fare, intervenendo sulla realtà al fine di costruire cose, aumenta la valenza del lato buono dell’uomo, tanto da generare  quasi una fabrica rinascimentale, come ai tempi di Leonardo o Michelangelo. In questo senso l'agire umano infatti è dunque da intuirsi come un corpo vivo che si concretizza nel plasmare comune. L’uomo, oramai conscio di essere centro e misura del mondo, grazie all’uso dell’arte e della scienza, in simbiosi con se stesso e con la natura, produce e costruisce gli edifici-spazi che vive ed usa, dando vita ad una positiva relazione di corrispondenze in cui si intersecano piani ideali e reali con dimensioni interiori ed esteriori, dove regnano armonia, simmetria e perfezione, come si evince guardando in modo traslato il celeberrimo “Uomo di Vitruvio”. Perciò l’uomo è da concepirsi come ente creatore, che, attraverso l’arte intesa come luogo-mezzo di ponderazione, concretizza attraverso il fare ed il produrre costrutti tangibili e concreti sul piano sociale e storico. 
Ma quando la parola corpo viene accostata al verbo “decostruire”, essa entra in netta antitesi con il concetto stesso di “fabbrica rinascimentale” in quanto il suo valore positivo è distrutto dalla potenza devastatrice della deprivazione, del nonsenso e dello svuotamento. Tale violenza è così inesorabile da abbattersi anche sul sostantivo “corpo” che, a causa del prefisso privativo “de”, rimane annichilito, svilito e distrutto. Guardando i lavori esposti, infatti si percepisce che siamo entrati nella parte buia della sopracitata dicotomia rappresentata in questa mostra. Dunque il privativo “de”, che implica una sottrazione o una privazione, attua sul corpo una negatività tale da disgregare la perfezione raggiunta dall’uomo proiettandolo verso un ineluttabile, e spesso tragico, destino. E nel Novecento il momento più devastante in cui l’uomo ha attuato questa terrificante decostruzione contro se stesso è stato il lancio di “little boy”, letteralmente “piccolo ragazzo”, ovvero il paradossale e infausto nome della bomba atomica sganciata su Hiroshima.   Ma l’ordigno atomico oltre ad essere il massimo esempio di destrutturazione dell'essere umano, degli animali e della natura, ha dato il via anche all'epoca della guerra fredda in cui l'umanità è stata costretta a vivere per lungo tempo sotto la minaccia di altre rovinose e catastrofiche destrutturazioni, capaci, come dice F. Guccini in “L’atomica cinese” di “...coprire un continente, correre verso il mare; coprire il cielo fino al punto dove l'occhio può guardare….”. Ma proprio nelle macerie della città nipponica, come si evince nella seconda parte dell'esposizione, si può intravedere una speranza perché l’uomo non può, per sua fortuna, fermarsi mai, deve riprendere a vivere e, traccia dopo traccia, deve puntare prima al ripristino della capacità costruttiva di se stesso e poi della realtà che lo circonda.
I tre artisti in esposizione, Elena De Rocco, Franco Giuliano e Bruno Tonolo, con le loro stilizzazioni, espressioni personali e specifiche tecniche esecutive hanno dunque creato un percorso visivo in grado di esprimere una dimensione manichea dell’uomo, in cui il bene, rappresentato metaforicamente dalla costruzione ai tempi della fabbrica rinascimentale, e il male, identificato nella decostruzione causata dalla distruzione, si palesano tanto megafonicamente da indurre quindi lo spettatore ad una riflessione sul proprio io di fronte alla necessità di mantenere vive libertà, democrazia e verità.