venerdì 1 aprile 2016

Tobia Ravà

Al Maestro Tobia Ravà dedico queste righe nella speranza di esprimere tutta la mia ammirazione ed emozione per il suo lavoro, tanto intenso sul piano artistico quanto complesso sul piano culturale. Tali mie riflessioni, ispirate da un'interessante colloquio precedente, certo non possono essere esaustive ma si possono ritenere come un breve vademecum per comprendere maggiormente il suo operato. 
Per Ravà l'arte è una modalità per esprimere il proprio percorso filosofico, nel quale la creatività è avvertita come mezzo per sondare il sapere. E questo suo viatico, come si può osservare palesemente nelle sue opere, è generato da un amalgama formato, da un lato, dall'analisi della mistica ebraica e, dall'altro, dalla cognizione del sapere occidentale. Questa sua sensibile dicotomia, composta dalla matrice religiosa e culturale ebraica unitamente agli esiti della conoscenza di derivazione greca, che, in realtà, nelle sue opere si coglie in modo più velato perché più nascosta, acquisisce forza, da un lato, dal suo vissuto biografico e, dall'altro, dall'ispirazione che egli trae dallo studio dei grandi uomini del passato che lo affascinano.
Da questo concetto di arte, Ravà declina poi il ruolo dell'artista: egli deve sentire la necessità di rapportarsi al prossimo, cercando di esprimere idee per le quali la sola comunicazione verbale non è sufficiente. E in ciò riesce solo mantenendo legata la quotidianità ordinaria alla propria creatività, perseguendo sempre lo scopo di vivere per generare arte e, viceversa, di generare arte per vivere, anche a costo di sacrificare, se necessario, gli affetti familiari. Dunque questo rapporto vita-arte assume una dimensione globale e totalizzante, tanto da permettere all'artista, tramite la sua intuizione, di trarre spunti dal dato reale e/o naturale che lo circonda, senza però, come facevano i romantici, stabilire una fuorviante simbiosi con esso.
Ed è proprio questa simbiosi vita-arte, unitamente agli input provenienti dal mondo esterno, che ha permesso a Ravà di creare un personale linguaggio visivo atto a concretizzare iconicamente e tangibilmente le sue istanze intellettuali e creative. Esso perciò non è il frutto di mera casualità, ma deriva da un percorso biografico nel quale sono riscontrabili alcune tappe temporali fondamentali. Agli inizi della sua carriera frequenta il mondo della calcografia approfondendone le svariate versatilità ideali ed espressive, tanto che giungerà ad  usare un segno, da lui inteso come “racchiuso in sé” perché elemento inequivocabile, capace di frantumare anche le parti più minute del soggetto. Successivamente egli si approccia allo studio della geometria teorica nella quale intravede la possibilità, quasi per paradosso, di frantumare le forme costituenti i dipinti giungendo  a costruzioni geometriche intrise di echi optical. Sollecitato poi da nuove istanze, modifica anche il  colore passando dalla policromia alla tri/bicromia e sfumando le immagini grazie alla sovrapposizione di campiture per creare effetto prospettico, seguendo una modalità mutuata dalla fotografia. 
Le progressioni e compenetrazioni di queste fasi artistiche, gli permettono si inventare un personale alfabeto. Esso si impernia sulla singola lettera ebraica intesa come una forma costitutiva, una sorta di mattone che, utilizzata secondo una successione, origina delle parole le quali, a loro volta, edificano il dipinto. Ai lessemi Ravà aggiunge progressivamente anche i numeri, prima casuali, poi inseriti in un testo logico, che arricchiscono maggiormente la grafia di significati simbolici. Tale scrittura è la confermata testimonianza del rapporto tra arte-cultura e vita che permea l'artista: infatti essa sblocca una situazione di malessere personale presente in lui, provocando un cambiamento così epocale da inaugurare positive novità. 
Le lettere ed i numeri, che sul piano visivo divengono macchie di colore interpretate, sono stati dunque per Ravà la scintilla per una nuova via e sono il frutto di lenta evoluzione da cui si palesano significative ponderazioni ideali ed intellettuali costantemente intuibili nelle sue opere. Da questi studi emergono rimandi ad una moltitudine di elementi razionali, emozionali o contemplativi, quali: la fisica nucleare, intesa come conoscenza specifica della relatività della natura, partendo dal micro per arrivare al macro cosmo; la matematica, intesa come processo di senso tangibile e non solo quale entità teorica ed astratta; il connubio tra geometria ed ottica, usato come altra modalità sensoriale, tanto che l'artista imposta le sue opere sulla percezione binoculare grazie ad interventi su foto a grandangolo che trasformano l'approccio visivo in una dimensione simbolica, ma pur sempre reale, nella quale si riscontra un valore concettuale. Non mancano poi istanze vicine all'alchimia, usata come una sorta di prescienza che induce all'interpretazione di altro mondo cognitivo, dalle forti valenze simboliche e misteriche. 
Oltre a ciò, va aggiunto che Ravà, all'interno del suo alfabeto, usa il calcolo matematico come fine e concepisce la geometria come mezzo per riscontrare le coincidenze in senso deterministico, ma mai dogmatico, ricavate dall'interpretazione dalla “ghematrià” (“...ovvero il sistema ebraico di permutazione tra parole e numeri impiegato per decrittare il significato celato e mistico dei testi” come afferma M.L. Trevisan). Così facendo, egli riesce ad aumentare l'impatto emotivo delle sue opere determinando nell'osservatore un positivo spiazzamento (condizione necessaria ad un'opera d'arte per crescere e far crescere chi la guarda), mai sgradevole, in grado di attirarlo, affascinandolo. “L'opera d'arte – dice l'artista – deve destare in chi la guarda uno stupore come  l'improbabile sesta riga del pentagramma”.   
  Ma i tentativi di comprendere queste coincidenze celano in Ravà il fulcro sostanziale del suo fare artistico. Essi non vogliono fornire risposte o consolidare certezze, ma marcano da parte dell'artista il desiderio di conoscenza. Queste due parole, nonché i profondi significati che esse nascondono, divengono dunque il soggetto ideale che fa da substrato all'opera di Ravà e lo sono al tal punto che egli vi ha dedicato la vita e piegato la sua creatività per dar loro sostanza ed essenza. Basta solo analizzare etimologicamente i lessemi per comprendere come siano una fonte inesauribile di ispirazione. Infatti egli metaforicamente desidera ardentemente – dal latino, de-sidera che significa letteralmente “mancanza di stelle” ed interpretato come appetire a qualcosa che manca – la conoscenza che ancora non ha raggiunto e si adopera in tutti i modi per carpirla, ovvero farla sua, ma non con astuzia o inganno bensì con ragione, sentimento ed estro. La conoscenza quindi per Ravà diviene il fine ultimo esistenziale. E perciò non gli interessa come essa si possa definire (già in epoca greca questa veniva concepita suddivisa tra prodotto dell'indagine introspettiva, da un lato, e derivazione sensoriale, dall'altro) ma si concentra sul fatto che essa sussiste solo se intuita come percorso di crescita dell'uomo. 
É chiaro che i tentativi di percorrere questo cammino verso la trascendenza, avvicinandosi ad una dimensione globale dalle infinite sfaccettature, si declinano secondo le necessità e le intenzionalità proprie di ogni essere umano, rinnovandosi nel momento stesso in cui quest'ultimo riesce a comprendere il sapere. Infatti la conquista di ogni livello di consapevolezza fa avvertire subito la necessità di protendersi verso un nuovo ed ulteriore stadio di essa, innescando un processo di crescita sapienziale infinito. E tale aspirazione al sapere porta l'artista stesso a scorgere la strada verso il sacro ed il divino, come confermano anche gli studi compiuti da Ravà inerenti la mistica ebraica imperniata sulla cabala, percorso conoscitivo, iniziatico e parallelo capace di influenzare anche il mondo scientifico ed umanistico.   
L'opera  d'arte a prescindere che sia realistica, paesaggistica, simbolica o astratta, nonché bidimensionale o tridimensionale, diviene quindi un punto d'incontro tra il soggetto ideale di Ravà e l'osservatore. Essa, nel suo insieme, assume una valenza semiologica tale da produrre una condizione psicologica intrisa di un'inesorabile voglia di insondabile e di emozioni, atta a favorire in chi la guarda un percorso iniziatico che induce al sapere autocosciente. 
Ravà, sospinto da uno spirito ironico e talvolta scherzoso, invita in ultima analisi lo spettatore a scovare la seconda verità, ovvero quella nascosta, che travalica il dato contingente ed oggettivo, cosicché egli possa crescere sia cognitivamente sia, soprattutto, spiritualmente.

Guido Baldessari

Caro Guido, per un artista tanto variegato ed eterogeneo come te, per il quale discipline come la matematica e la fisica, solitamente lontane dall'arte, costituiscono il perno della ricerca intellettuale, penso che valga la pena richiamare le date fondamentali del percorso creativo per comprendere al meglio lo svolgersi della tua carriera e della tua poetica.

Guido Baldessari nasce il 10 febbraio 1938 a Venezia in campo S. Samuele. Fin dalla prima infanzia egli viene subito a contatto con il mondo dell'arte in quanto, accompagnando il padre che lavora per un antiquario, ha la possibilità di frequentare i pittori, i decoratori e gli intagliatori della Venezia del tempo. E tra le prime personalità che il giovane incontra al celebre bar degli artisti in campo S. Barnaba - siamo durante la metà degli anni 1950 - spicca il nome eccellente di Felice Carena, di cui egli stesso più tardi dirà essere “...come un personaggio ieratico che incute timore per via di quella barba  da uomo del milleottocento”. Frequentando poi la bottega del corniciaio Aldo Bolgarelli, in calle delle Boteghe, presso campo S. Stefano, Baldessari conosce anche Neno Mori, Fioravante Seibezzi e Sergio Varagnolo, artisti che, accanto al padre, egli ascolta parlare d'arte e di pittura così intensamente da apparirgli quasi delle divinità, persone eccezionali toccate dalla grazia di Dio, che alternativamente diventano degli eroi fuoriusciti dai fumetti oppure dei sfortunati Don Chisciotte destinati, al tempo, a non godere del successo che avrebbero meritato. 
Il 1954 per l'artista, che ha compiuto sedici anni, segna l'inizio  della sua carriera. Acquistate le prime tele, i pennelli ed i colori, comincia a  cimentarsi nella pittura,  dipingendo le case ed i palazzi che vede dall'oblò dell'abbaino della sua abitazione. Sono dipinti impostati su un realismo autodidatta ma che testimoniano una spiccata attitudine creativa ed una attenzione, seppur inconscia, verso la geometria ed i volumi. Superata questa prima embrionale, ma decisiva, fase e incoraggiato dai primi risultati positivi, egli capisce di doversi dedicare totalmente all'arte.  
Nel 1955, matura l'idea di ampliare il suo raggio d'azione:  abbandona i panorami colti dalla propria finestra e comincia a dipingere  marine, scorci della città lagunare e, in modo più assiduo, prospettive delle isole della laguna, quali Pellestrina e Burano. Questi ultimi soggetti lo attraggono maggiormente per le forme particolarmente squadrate e geometriche degli edifici (che agli occhi di oggi sono da ritenersi come le prime avvisaglie dei futuri esiti extrarealistici). Spinto dal desiderio di approfondire didatticamente la pittura, nello stesso anno si iscrive ai corsi serali dell'Istituto Statale d'Arte, nella sezione Decorazione. Qui affronta discipline quali Disegno dal Vero, diretto del professor Maragutti, in cui rappresenta solidi geometrici; Disegno Plastico, in cui riproduce copie di reperti statuari per approfondire la sua conoscenza del corpo umano; Disegno Tecnico, diretto dal professor Tonello e con il professo Pajer (futuro Preside della scuola), nel quale approfondisce scolasticamente la sua passione per la geometria. Se di sera si trova all'Istituto, durante il giorno continua la frequentazione, iniziata già col padre, degli studi dei pittori e dei laboratori di doratori, intagliatori e decoratori per aumentare questa sinergia tra scuola e creatività concreta, declinandola poi nella pittura. E tra questi formatori esterni spicca Valenzin, pittore figurativo dai tratti simbolici, che ha lo studio nei pressi della Toletta.  
Tra i diciassette e i diciannove anni, Baldessari evolve ancora la sua pittura. Infatti il tema del paesaggio, basato sullo stile figurativo dal piglio geometrico, cede il passo alla natura morta dalle forme floreali, dai tratti sinuosi e dolci ed impostata su colori più espressionisti e dalle valenze drammatiche.

Diplomatosi nel giugno 1959 come Maestro d'Arte, pur continuando sempre a dipingere, su consiglio del suo insegnante Maragutti, per un anno approfondisce la sua esperienza sul piano tecnico presso lo studio di design “Alfa Studio”, nelle vicinanze di Rialto, dove realizza scritte e disegni per la pubblicità. E nel contempo si iscrive alla Scuola Libera del Nudo dell'Accademia di Belle Arti di Venezia, luogo in cui incontra e conosce  gli artisti Bruno Saetti e Carmelo Zotti. 
Conclusi gli studi, dal 1959 al 1960  il ventenne Baldessari lavora come decoratore presso la ditta “Ceramiche San Polo” diretta dal Prof. Rosa, dove apprende ed approfondisce l'arte della decorazione e l'uso del colori per la ceramica.
Durante lo scorrere quest'anno, il vecchio genere pittorico è destinato a cambiare. L'artista, ospite di un antiquario amico del padre, nei pressi di Erta Canina (a Firenze) respira le arie toscane e ha modo di osservare le opere degli artisti storici, captandone atmosfere, luci e geometrie che poi infonderà nei suoi lavori futuri.
Nel 1960 parte per il servizio militare ed è inviato a Martina Franca in Puglia. Questo luogo modifica in modo determinante il concetto di arte  in Baldessari. Infatti, nei momenti di libera uscita, mentre riproduce ad acquerello e con la matita gli stupendi trulli di Alberobello, rimane progressivamente affascinato dalle composizioni cromatiche dei sassi che compongono le pareti degli case. Tale fascinazione lo porta a tralasciare l'impostazione verista e realista, concentrandosi totalmente sul dato geometrico, ora usato come substrato per creare un mondo simbolico, da cui emergono sogni e fantasie interiori dai rimandi onirici, ma sempre legati alla colorata gamma di matrice veneziana.  
Ritornato a Venezia, nei primi mesi del 1962, con questa nuova concezione pittorica,  viene assunto come scenografo presso il teatro “La Fenice” di Venezia. In questo ambiente, guidato anche dall'esperienza e dalla bravura del valente professor Antonio Orlandini, docente di scenografia all'Accademia di Belle Arti della città, ha la possibilità, oltre che di poter lavorare in un ambito creativo nonché di conoscere varie e valenti personalità del mondo della cultura e dello spettacolo a livello mondiale, di incrementare le proprie conoscenze tecniche. Dunque la capacità di colmare i bisogni esecutivi per costruire emozionanti scenografie baroccheggianti, come per l' “Alcina” di F. Zeffirelli, o suggestive come per “Madre coraggio” di B. Breckt, o il “Tristano e Isotta “ di G. Manzù, gli permette di maturare una forte esperienza progettuale e realizzativa che egli usa anche per creare le sue opere nonché approfondire le ricerche in campo artistico. I maggiori arricchimenti tecnici gli derivano dalle sperimentazioni di ottica che egli ha l'occasione di svolgere durante le prove prima del debutto ufficiale delle opere, in cui può osservare le traslazioni e le rifrazioni originate dai fasci di luce che colpiscono scene ed oggetti.

L'essere stato catapultato in questo fascinoso mondo del teatro veneziano lo fa sentire come un novello Ulisse che vaga oltre “colonne della luce”. La crescita culturale e le relazioni umane che egli ha modo di coltivare all'interno di questa fucina del sapere inevitabilmente cambiano radicalmente gli intenti culturali e creativi di Baldessari che rompe definitivamente con il passato, abbandonando la figuratività ed il realismo. L'artista inaugura una nuova stagione creativa nella quale l'elemento essenziale basilare sono le composizioni generate da “mitragliate grafiche di luce”, ordinate come una sorta di scrittura alchemica che esalta colori e costrutti. Le precedenti forme derivanti dai sassi dei trulli ora si mischiano  alle grafie, ai colori ed alle luminescenze ispirati al palcoscenico, che, sotto forma di graffi, si coagulano creando all'interno del quadro strane sagome che progrediscono in tratti antropomorfici come volessero narrare in modo fantastico racconti fiabeschi, saghe e leggende. 

Per approfondire maggiormente il tempo trascorso presso La Fenice, riporto un breve estratto di un mio testo precedente in merito all'excursus artistico del maestro:“....Egli dunque mira a dare vita a costrutti geometrici che, percorsi dal movimento, siano in grado di suscitare emozioni in cui trionfa la musicalità e la poesia.

Lavorando in teatro acquisisce l'opportunità di sperimentare le qualità tecniche dei più svariati materiali al fine di ottenere gli effetti di luce e dinamismo da lui voluti, nonché ha l'occasione di sviluppare le sue particolari immagini geometriche che poi dipinge rigorosamente a mano e sulle quali egli colloca due pezzi di tulle per creare alterazioni cinetiche, addirittura facendo combaciare perfettamente le linee che formavano il costrutto geometrico con le tramature del tessuto. 

Le geometrie, compenetrate, sovrapposte, accostate fra loro ed impostate secondo diagonalità per infondere maggiore tensione sono oramai divenute architetture mentali per rappresentare ideali metafore di utopie e sogni; ad esempio, il cerchio si trasforma in archetipo di lirismo poetico perché rimanda alla purezza, all'armonia ed alla completezza. Tali architetture si evolvono nella concretizzazione di uno spazio allo stesso tempo immateriale e mentale, privo di riferimenti oggettivi e temporali e perciò percepibili solo attraverso la luce.
Successivamente Baldessari sostituisce il tulle con vetro e perspex e l'architettura sottostante si frantuma maggiormente. Si crea una visione spezzettata e plurima che diviene infinita grazie ai differenti punti di osservazione dell'osservatore. Nell'immagine del quadro si assiste alla deflagrazione verso i lati per aumentare il senso del movimento. Tutti i colori sono acrilici fluorescenti  e sono fra loro giustapposti o contrastanti sul piano cromatico per essere più percepiti.”

Nel 1964 la ricerca di Baldessari fa un'ulteriore progresso. Le trattazioni incantate cedono il posto alla raffigurazione di volti fantasiosi e talvolta veritieri. Non si tratta di un ripensamento verso il realismo, ma di   una espressività protesa a far trionfare la matericità coloristica rispetto alla precedente scrittura, come testimoniano i suoi onirici cardinali.

A metà dello stesso anno, l'artista vive un momento cruciale caratterizzato da grandi mutamenti. Infatti, pur sperimentando con le vecchie modalità, vi è in lui ancora un'altra evoluzione, dovuta al rapporto che egli, da buon veneziano, ha con il mare ed in particolare con i fondali. Da sempre appassionato di pesca subacquea, attratto dai colori e dalle fattezze di conchiglie, alghe, stelle marine ed anemoni, decide di prelevarli per inserirli all'interno di una bottiglia e poi studiarne i vitali movimenti, i riflessi ed i riverberi che la luce crea quando li colpisce ed infine riportarli sulla tela. Questi nuovi spunti visivi e, soprattutto, le nuove forme, gli permettono di inaugurare un ciclo pittorico detto “Ontogenesi”, nel quale  emergono le sue estrapolazioni provenienti dalle sinuosità dinamiche e luminose di questi microcosmi.
Sempre spronato dalla necessità  di andare oltre e cercare sempre, durante 1965 compie un ulteriore scarto: le forme ricavate dall'osservazione del moto degli esseri del suo mondo marino, si stilizzano,  liberandosi degli orpelli naturali, per divenire pure immagini essenziali che si inseriscono all'interno di uno spazio oramai non più pittorico, e in cui trionfa definitivamente la geometria. Quest'ultima per Baldessari assume valenze simboliche che egli sfrutta per le sue creazioni. Linee, curve, spirali, cerchi, triangoli, quadrati, esagoni sono elaborati, modificati, deformati, compenetrati e sovrapposti secondo una modalità empirica, che si ispira alla fantasia visionaria dell'artista. Egli sembra dunque agire come uno sciamano forgiatore di alchemiche immagini, composte da geometrismi dispensatori di latenti emozioni, le quali si arricchiscono di vitalizzante dinamismo grazie alla perfetta sovrapposizione di una lastra zigrinata. Si origina in tal modo un'assonanza (in cui la geometria si sottopone alla volontà del dinamismo del cristallo) la quale trasla tutto su un piano spirituale.

Forte di queste sue nuove concezioni artistiche, alla fine dello stesso anno, si avvicina al movimento artistico dell'Optical Art, o meglio, dell'arte programmata. A questo nuovo mondo creativo Baldessari vi giunge non in modo casuale: infatti esso è la meta non solo di una lunga e costante ricerca artistica, ma anche di un desiderio custodito fin da giovane che si è lentamente palesato. A confermare tale passione verso il cinetismo e le sue derivazioni, vale la pena citare un aneddoto risalente all'adolescenza dell'artista: spesse volte, ritornando dal Lido di Venezia con la motonave, egli rimaneva affascinato dalle vibrazioni cinetiche generate dalla sincronia, sia temporale che luminosa, dei riflessi prodotti dai raggi del sole che illuminavano le ringhiere verticali della terrazza del palazzo di Cà Giustinian e gli apparenti spostamenti da questa prodotti, visti dal suo punto di osservazione il quale, anch'esso, variava in base alle virate  dell'imbarcazione. 

 Spinto dalla volontà di creare una sincronia di movimenti tra più elementi visivi perfetti, infonde vibrazione a queste forme geometriche pure, decidendo di cambiare anche materiali, tecniche esecutive e strumenti, non tanto per una mera necessità pratica, ma perché intuisce che le loro compenetrazioni ed attitudini esecutive gli permettono di metaforizzare la scienza e la tecnica rendendole poetiche, perciò liriche.

Ma non è tutto. Per contestualizzare culturalmente questa sua nuova modalità creativa dove il movimento è il perno fondamentale, Baldessari si avvicina al Futurismo del quale lo attrae il dinamismo, la velocità e l'anticipazione delle cose. Oltre che sul piano tematico, le opere dunque sono il frutto di un attento studio da parte dell'artista rivolto ai materiali che, magistralmente, non solo piega e modifica, ma li dirige per dare vita ad un'immagine lirica, nella quale le vibrazioni della luce permettono la generazione del dipinto. Ma l'uso della luce, oltre che al rimando cinetico, gli deriva dalla sedimentazione inconscia nella mente dei riflessi continui  delle acque nei canali veneziani, esperienza quotidiana che egli viveva normalmente. 
Sempre nello stesso periodo, e per un triennio, aderisce a “Dialettica delle tendenze”. Il gruppo (formato da Marilla Battilana, Sergio Bigolin, Sara Campesan, Franco  Costalonga, Danilo Dordit, Jacques Engel, Oddino Guarnieri, Antonio Niero, Romano Perusini, ed altri), i cui componenti sono spesso rifiutati dalle gallerie inserite nel circolo del figurativo, ma vengono invece aiutati dalla gallerista Fiamma Vigo, si impegna, da un lato, a rinnovare il panorama culturale locale e, dall'altro, a far conoscere gli ultimi esiti della loro sperimentazione organizzando mostre in varie e rinomate località italiane ed estere.

Trascorrono circa vent'anni in cui l'artista sperimenta le innumerevoli variabili di questa sua poetica e partecipa attivamente alla vita culturale della citta di Venezia. Infatti nel 1982 fonda, in compagnia di altri artisti, il gruppo artistico “Materia Prima”. Un insieme sensibile che si pone l'obiettivo, oltre che di continuare a sperimentare, di creare interscambi culturali coinvolgendo artisti provenienti dai più disparati ambiti creativi e da varie parti del mondo. Nascono così programmate iniziative e mostre culturali in ambiti pubblici che culmineranno con la partecipazione del gruppo agli eventi collaterali di ben due Biennali d'Arte di Venezia. 
Spronato da nuovi entusiasmi e dalla voglia di cambiare ancora,  durante il 1984 decide di togliere il vetro che collocava sopra le opere. Questo passaggio apparentemente solo tecnico-esecutivo, in realtà testimonia nell'artista la necessità di travalicare le fascinazioni dell'optical: la dimensione percettivo-cinetica adesso diviene mentale-cosmica in cui la struttura geometrica abbandona le tensioni visive per vivere in piena armonia con il colore e l'intensità luminosa che questo emana.
Anche il 1988 è per Baldessari foriero di importanti novità. Mai sazio di cambiamenti, sceglie di modificare l'empirismo compositivo della geometria che ordina il quadro. Decide di costruire delle sagome, ricavate da silhouette geometriche, che sovrappone sia alle forme sottostanti del dipinto, o fra di esse, le quali, aumentando le sfaccettature luminose e la vorticosa energia intrinseca dell'immagine, proiettano lo spettatore in un ulteriore universo oramai cerebrale, psichico e spirituale.

L'artista, all'interno del suo percorso filosofico, sembra essere giunto ad una essenza poetica in cui la luce, che scorre sugli sfondi neri simboleggianti l’inconscio umano, si muove vertiginosamente e infinitamente creando figure geometriche, intese come manifestazione   razionale di questo io interiore, così da permettergli di misurare e coglierne l’immensità. La velocità, il colore vivo metallico che diventa quasi un  flash-back, la mutevolezza spaziale generano tensioni e vibrazioni così intense che oltre a proiettare lo spettatore dentro lontanissimi spazi siderali ed a farlo roteare assieme a loro, sembrano oramai svelarci l'anima più profonda e sensibile del pittore. 
Passato il primo lustro degli anni novanta, Baldessari muta nuovamente e  crea il ciclo dei ritratti atemporali. Per far vibrare maggiormente il quadro sul piano estetico, arricchisce queste sue geometrie spirituali di immagini giustapposte di volti, lettere ed un attento e raffinato ornato decoratico. Quest'ultimo, poi, è da intendersi come il frutto delle esperienze pregresse, iniziate dalla frequentazione dell'Istituto Statale d'Arte,  ma soprattutto, del suo gusto veneziano  per la decorazione che gli è innato. Infatti le opere non cadono mai nella stucchevolezza ma, al contrario, seppur vorticose, mantengono sempre un equilibrio ideale d'insieme perfetto.

Concludendo questo testo riguardante la lunga carriera artistica di Baldessari, credo sia doveroso ricordare che egli, sebbene abbia iniziato dal verismo, si sia poi fatto attrarre dalle regole della geometria e della matematica, nonché dal cinetismo. Questo perché nel suo inconscio non ha mai voluto fissarsi su un solo tema creativo ma ha sempre cercato di evolversi, di mutare provando sempre con rinnovato entusiasmo. A conferma di ciò, basti sottolineare come la sua volontà di spostare il centro visivo dei suoi quadri ha il compito di fuorviare lo spettatore, il quale è obbligato a compiere uno scarto mentale per giungere alla comprensione di questo suo disorientamento e, perciò, una sorta di spostamento interiore. Forse in ultima analisi questo desiderio di evoluzione e di movimento, per Baldessari altro non è che la testimonianza di essere vivo e di lasciare il suo personale segno tangibile.