martedì 31 luglio 2012

Francesco Selvi

È comunemente usuale immaginare Milano come una città frenetica, trafficata ed al centro della cultura contemporanea, insomma una metropoli aggettata verso il futuro, nella quale l'arte occupa un posto rilevante grazie alle numerose gallerie che promuovono le tendenze più attuali con opere concettuali, video art, installazioni, o con importanti, internazionali e mondani appuntamenti quali MIArt-Art Now, o con l'utilizzo di spazi cittadini per happenig o eclatanti provocazioni, come ad esempio i manichini impiccati in piazza XXIV Maggio nel 2004.
Tale propensione per la contemporaneità però talvolta costituisce un vero e proprio luogo comune che costringe a sviare lo sguardo anche da un'altra dimensione pur presente nella città meneghina, per nulla subalterna ma solamente percepita in tono minore, soprattutto dalla critica e dai mass media: si tratta dell'arte che si struttura sulla tradizione. Dunque la Milano delle architetture moderne o delle fiere futuribili e quella dei navigli con le botteghe dei pittori che ritraggono scorci di città, coesistono in pari dignità a prescindere dalla ribalta pubblicitaria di cui possono godere. Questa dicotomia tra futuro e passato, è bene ricordalo, rappresenta le due facce di una stessa moneta che si sostengono a vicenda. L'arte ha la necessità di far coesistere reciprocamente passato e futuro nel presente, tenendo conto che il passato è sempre sprone per il futuro, il quale a sua volta, sembra logicamente banale ricordarlo, viene trasformato in passato per relazionarsi poi con il nuovo futuro. A conferma di quanto detto, basta citare un esempio che ha per protagonista proprio il capoluogo lombardo: il movimento artistico della scapigliatura, considerato ribelle e modernista dalla pittura romantica e risorgimentale di metà Ottocento, ora è ritenuto un classico pittorico.
Questo accade perché l'arte è semplicemente un atto creativo dell'essere umano, basato su onestà interiore e su un processo intellettuale, gestuale e tecnico acquisito sia teoricamente sia attraverso l'esperienza, capace di essere testimonianza positiva  e sensibile dell'uomo d'ogni tempo.
L'opera del milanese Francesco Selvi si inserisce nella dialettica di questa dicotomia tra seria tradizione e necessaria innovazione e vi partecipa attivamente con le sue peculiarità sia artistiche sia culturali. Basti pensare al robusto concetto di Arte, che Selvi definisce così: “L'arte è come la religione: essa è una categoria che l'uomo ha dovuto porre in essere per dare una collocazione alla sua volontà creativa che è parte di sé. Poi, col tempo, l'arte è divenuta un'attività umana di abbellimento, successivamente un'attività economica ed oggigiorno sembra una fabbrica abbandonata ad un mercato dell'apparire. Oggi pochi mezzi hanno la dote di rappresentare la società attuale come invece sa fare l'arte”. Tale definizione così pregna non nasce dalla casualità, ma da anni di seria e conscia gavetta, la quale ha origini molto lontane e comincia dalla  giovinezza del pittore: egli dipinge già all'età di dodici anni. Adolescente, comincia a rivolgere la sua attenzione, anche per induzione famigliare, allo studio dei classici ed alla pittura del '700 e del '800, passando poi ai macchiaioli ed agli impressionisti, dai quali rimane colpito per la loro capacità di emanare emozioni nonostante le loro opere non seguano il puro e perfetto realismo accademico. Successivamente, più maturo, approda alla pittura del '900, concentrandosi sullo studio di Afro, pittore che, come afferma egli stesso, “sembra apparentemente creare composizioni banali, quasi fatte da persone comuni, ma pregne di armonia e di equilibrio”, meravigliandolo per l'apparente semplicità e la sinfonia di colori e forme primordiali. Contemporaneamente, Selvi si è fatto affascinare anche dall'opera di Ennio Morlotti del quale indaga la capacità, attraverso dei gesti molto semplici, di creare emozioni. Ma non è finita. Parallelamente comincia anche un'intensa attività di figurista che lo porta da un lato, dipingendo i corpi e gli abbigliamenti dei soldatini di piombo, a raffinare il mimetismo pittorico e l'attenzione per la definizione dei particolari minuti, dall'altro, ad approfondire la conoscenza delle varie versatilità della tecnica ad olio. La voglia di sperimentare lo porta, per la resa vibrante dei chiaroscuri, ad utilizzare anche i colori acrilici, presto però abbandonati perché non congeniali alla sua sensibilità pittorica.
All'età di quarant'anni giunge ad una svolta: ormai padrone della tecnica figurinista, decide di passare alla pittura “da quadro”, in cui non solo deve cimentarsi con le grandi dimensioni, ma anche deve adattare la sua ormai esperta manualità su supporti tridimensionali, seppur piccoli,  alla stesura del colore sulla tela bidimensionale. La nuova stagione artistica lo vede assiduo e caparbiamente concentrato a concretizzare le convinzioni maturate durante gli anni, inserendosi nel solco della tradizione della pittura in quanto attratto dal dialogo con la natura, che, oltre a divenire soggetto, è prima di tutto pretesto per creare. Tale propensione al dato naturale diviene viatico per trasporre sul piano materiale del supporto le proprie idee, emozioni oniriche ed impressioni formali. Queste, catalizzandosi ed esprimendosi attraverso la tecnica libera, istintiva ed arricchita di suggestioni naturalistiche/espressionistiche, divengono veicoli di godimento visivo, piacere e tranquillità interiori per chi le osserva. E per far ciò egli crea una sorta di amalgama fatto di  segni e colori che rimandano ad un fondo visivo naturale dal sapore trasognato, il quale compare sia nei paesaggi sia nelle nature morte, e dove, percorrendo sia sul piano ideale sia formale tutto il dipinto,  si catalizzano in senso totalizzante le variabilità di ciò che circonda la vita del pittore. Ma non è tutto: affinché l'impressione visivo-mentale sia più forte, egli non inserisce mai nessuna raffigurazione umana in quanto ritenuta elemento superfluo e di disturbo.
Nel corso di quest'ultimo decennio, in Selvi la dimensione mentale della natura sul piano pittorico è mutata: partendo da una fase dove essa era idealizzata, lontana dalla figurazione, essa è passata ad un momento nel quale il pittore la concretizza sul piano realistico in modo da rendere maggiormente efficace il livello della comprensione, senza però dirigersi verso la sua astrazione. Negli ultimi lavori il concetto di natura è proteso a creare un equilibrio tra la precedente visione informale e la successiva dimensione realistica, in modo da creare una variegata mescolanza indiriuzzata ad un bilanciamento comunicativo ed espressivo.
Sebbene la sua pittura sul piano filosofico sia approdata a nuove mete, sul piano esecutivo essa ha mantenuto costanti alcune sue peculiarità che, anche a distanza di anni, hanno reso riconoscibili le opere: la prima è l'uso dei colori ad olio sia perché, visti i lunghi tempi di asciugatura, danno la possibilità di gestire successive stesure sul quadro, sia perché, oltre al piacere di fare e di creare il dipinto, egli è attratto dalla grassosa matericità e dalla brillantezza del pigmento. La seconda è la possibilità, libera e multiforme che questi pigmenti offrono, di aggredire violentemente la tela con la spatola, o di stendere il colore con pennellate  grevi e cariche. La terza è la tendenza verso il dato realistico, per esempio nel raffigurare i particolari, ricchi di corrugamenti, del terreno, tramite una miscela di colore ad olio e sabbia, creando così una pastoia ed una grumosità materiche veramente accattivanti.
Artista versatile, Selvi, con la sua voglia di dar sfogo a questa sua libertà, di essere tramite di serenità verso il mondo e di ribadire l'indispensabilità del dialogo con la natura, non solo contribuisce a mantenere viva  la cosiddetta pittura tradizionale, ma dimostra ancora una volta come essa sia tassello importante  per l'evoluzione dell'Arte stessa.

giovedì 12 luglio 2012

Alberto Deppieri

Ancora una volta Alberto Deppieri si dimostra artista concreto, versatile e sempre in movimento all'interno del panorama culturale contemporaneo. Infatti non sono passati che soli due mesi da quando, presso il  Centro Culturale “Candiani” di Mestre, ho avuto l'occasione di vedere le interessanti opere esposte in occasione della mostra dal titolo “Sospensione” ed ora mi trovo a riflettere su una retrospettiva dal titolo “Da uomo cavallo a sospensione” presso la galleria Dictynneion. Tale ravvicinata persistenza nel mostrare il suo lavoro al pubblico non solo lo ha portato alla ribalta, ma mi ha dato la possibilità di poter conoscere in modo più approfondito quali siano le sue peculiarità, emerse anche durante un lapalissiano confronto sul suo fare arte. Ed è proprio iniziando a definire il concetto di Arte che è possibile comprendere la profondità intellettuale di Deppieri. Egli, infatti sostiene che questa si manifesti quando forma, materia ed essenza confluiscono in una situazione posta all'interno di un'ambientazione spazio-temporale che vale la pena, o è necessario, creare; essa ha il compito di attirare e/o respingere chi ne fruisce attraverso la sorpresa, ovvero il cogliere alla sprovvista per creare stupore, e provocare riflessione ed emozionalità. Per rendere concreta e tangibile tale definizione, l'artista deve assumersi il compito oneroso, e talvolta periglioso, di saper evadere dalla quotidianità, spesso permeata dal pattume della frenesia mass-mediologica e dal trionfo del vuoto inganno dell'apparire sull'anima dell'essere, per creare delle metaforiche finestre proiettate verso il futuro. L'artista, dunque, si trasforma in una sorta di aedo, che, da un lato, ha la necessità di plasmare la materia dando tutto se stesso: la sua passionalità, il suo ritroso culturale e la sua biografia, miscelando, a seconda delle necessità, tradizione, capacità tecnica e provocazione; dall'altro, ha l'intenzionalità di rimanere onesto moralmente e culturalmente con se stesso per non creare artifici atti a fuorviare il fruitore. Partendo da tali presupposti, che vedono l'artista aggettarsi nel futuro per captarlo, anche l'opera d'arte si deve interpretare non come un qualcosa di idealmente definito e chiuso, ma come una sorta di quesito che l'artista stesso, attraverso il suo Io, rivolge agli uomini. Questi ultimi, mediante i propri sensi, l'intuito ed il libero pensiero assorbono il messaggio nel loro inconscio per costruirsi una propria personale ed intima risposta. L'opera è dunque un simulacro nel quale una realtà univoca, paradossalmente, palesa ed emana altre realtà che viaggiano all'unisono. La dimensione percettiva, ai fini della formazione di una risposta propria di ciascun individuo, perciò da sola non basta: è necessario che chi osserva l'opera si liberi della razionalità e del ritroso storico per farsi attrarre dalla memoria evocativa nella quale le immagini riaffiorano alla mente come riecheggi lontani dai tratti fantasiosi. E per realizzare un'opera così articolata, Deppieri usa i mezzi che la contemporaneità offre e li fonde con la sua sapienzialità tecnico- esecutiva. Usando vari supporti, dalle tele alle tavole, egli prende spunto da immagini video e/o pellicole, ne fotografa alcuni spezzoni, li estrapola, poi, dal contesto per svilupparli e stratificarli con il disegno, il colore e le resine. Oppure egli mischia questi tre ultimi elementi sovrapponendoli per mezzo della pittura orizzontale che gli permette particolari manipolazioni. Anche  su questo versante creativo prettamente pratico, non emerge mai la casualità. Questo perché nel percorso esecutivo di Deppieri si riscontra una latente ed innata progettualità, maturata, in area veneziana, prima all'Istituto Statale d'Arte e irrobustita poi all'Accademia di Belle Arti, arricchita infine da studi passionali su artisti quali, ad esempio, W. Kandinsky, Piero Della Francesca nonché da influssi di altre manifestazioni culturali, come la musica. Ecco perché nei suoi lavori, oltre ad una percezione mentale archetipizzante ed inconscia, si coglie sempre una captazione visiva funzionale, imperniata su una dimensione di equilibrio, di armonia, di eleganza e di giustapposta calibratura geometrica. A conferma di ciò, è doveroso ricordare l'importanza che la luce riveste nell'operatività di Deppieri: essa trasforma il dipinto in una atmosferica dimensione spazio-temporale, protesa a far emergere il mondo interiore dell'artista  fatto di flebili ed indefinite  tracce, le quali permettono ad ognuno, se ha la capacità, di cogliere i propri personali riverberi. Riprendendo il discorso sulla retrospettiva veneziana, le opere esposte ci danno la possibilità di poter riscontare dal vivo quanto scritto poc'anzi. Alcune di esse sono disposte secondo una modalità dicotomica di massima, che offre i due concetti di luce insiti in Deppieri: nella prima disposizione, si esalta il dato simbolico e sociologico, come si evince nell'opera “Pinocchio”; nella seconda disposizione, la luce assume la duplice funzionalità di sollecitare, da un lato, l'aspetto fisico/optical dell'opera, che, unitamente alla costruzione prospettica, induce il fruitore ad interagire con essa per goderne al meglio le varie sfaccettature, dall'altro, di far rievocare alla mente memorialità recondite dai tratti romantici. La prima parte, come in altri alcuni  lavori, si indirizza verso una matrice figurativa o antropomorfa, mentre nella seconda sono ripresi ed interpretati i tratti paesaggistici di Forte Marghera: questo infatti è un luogo nel quale l'artista ha lo studio e che, per la sua importanza, ha eletto a pretesto-contesto creativo. Credo che la personale e convincente motivazione culturale maturata da Deppieri lungo tutto il suo ritroso, sia come uomo che come artista, lo abbia portato a concepire il suo lavoro come il tentativo di far emergere la componente spirituale intrinseca dell'essere umano cercando di renderla tangibile, in quanto, seppur instabile, imprevedibile e nascosta, è pur sempre parte indissolubile di esso.

martedì 3 luglio 2012

Pio Penzo

Con la mostra “Ricordi”, si è voluto rendere omaggio, a quindici anni dalla scomparsa, ad un grande artista: Pio Penzo (Schio 1926, Venezia 1988). Pittore ed incisore, egli è stato una delle figure storiche dell’Arte italiana del secondo dopoguerra per quanto concerne la grafica. Questa tecnica nel corso del tempo, in particolare sul finire del XIX secolo, è stata spesso relegata a ruolo di arte “minore”, quasi a carattere illustrativo, ma a cui a buon diritto bisogna attribuire il suo giusto valore intellettuale, soprattutto  per gli esiti che essa ha raggiunto con Penzo. Personaggio schivo ed introverso, lontano dalle mode e dal clamore, Penzo era tutto teso a scovare  la purezza interiore e la spiritualità dell’animo umano, per arrivare a far emergere una sorta di religiosità quasi mistica. Tutta la sua poetica artistica, di conseguenza, era indirizzata ad indagare sul connubio tra “interiorità e natura”, fatto di calibrato equilibrio della composizione, di armonia  tra i vari soggetti, di chiarezza delle forme, in cui la figura umana è assente perché vista come “disturbatrice” di questo sublime creato. L’indagine del reale tende all’astrazione non fisica ma mentale, quasi metafisica; regnano sovrani il silenzio, la calma e la serenità, perché  tutto deve essere contemplato senza interferenze. Ci si incammina così in un sentiero filosofico dove tutto è proteso al supremo, all’infinito, al divino... Questo suo anelito poetico, sebbene in lui si possano ravvisare echi morandiani, si innesta nella tradizione incisoria veneta, fatta di attenzione alla natura e di rapporto fra luci ed ombre; di questa tradizione, infatti, egli é stato, oltre che  un continuatore, un divulgatore a livello internazionale. Virtuoso del bulino, che scorre magicamente sulla lastra di zinco o di rame, ci conduce in una natura percorsa da tratti fortemente veristi, dove si riconosce a colpo d’occhio la purezza del segno, la precisione, l’ordine, la chiarezza. Questo segno si trasforma, sulla lastra, in un fitto reticolo che rende fisico, vivo, e palpitante tutto ciò che incide. Come si può vedere, osservando le sue opere e scorrendo le sue varie raccolte, l’analisi di questo universo naturale ha toccato diverse tematiche, in cui però si intravedono tre direttici. Nei paesaggi  cittadini come “Miranda” o “San Geminiano”, gli elementi architettonici (case e strade) sono generati dall’unione della natura con la geometria, cioè la razionalità indagatrice, e sono colpiti da tocchi di luci secche, le quali imbrigliano il chiaroscuro delle forme solide arricchendole di plasticità. D’altra parte, nei boschi, nei paesaggi agresti o montani, talvolta imbiancati di neve, come “Neve” o “Burano”, la geometria cede il passo al frastagliarsi della luce in una miriade di sapienti effetti chiaroscurali, che, variando dai bianchi sino ai neri,  colpiscono per la palpitante vibrazione sia visiva, sia soprattutto interiore. Mentre nelle narrazioni dal taglio vedutista della raccolta “Egitto” del 1985, si vedono la precisione e la naturalezza dei particolari: sembra di  scorrere un album di fotografie. E’ doveroso, dunque, continuare a far conoscere ai posteri l’arte di Pio Penzo, non solo per rigenerare il mondo della grafica, ma soprattutto per far sì che sempre più persone possano immergersi nella poetica di questo artista tanto riservato quanto valente.