domenica 19 gennaio 2014

Stefano Stradiotto

La frenesia contemporanea ha condotto l’uomo verso uno smarrimento morale, ed a una conseguente perdita di ciò che egli, un tempo, riteneva veramente importante. Stradiotto con questo nuovo ciclo di opere vuole far sì che l’essere umano abbia la possibilità di recuperare, a cominciare da se stesso, questa genuinità oramai svanita e si possa così riequilibrare. E per far ciò l’artista si è incamminato in una sorta di “ricerca del tempo perduto” umano, sostanziata da una rigorosa analisi filologica ed etnografica. Ma questo tuffo nel passato non si è focalizzato sull’età classica (ovvero greca o romana) della quale noi occidentali siamo intrisi, bensì su un periodo molto più antico e precedente anche all’arrivo degli indoeuropei: quello preistorico. Questo perché in tale tempo primitivo, l’uomo, sebbene non esistesse né la scrittura, così come noi moderni la intendiamo, né la tecnologia attuale e dominasse il tribalismo, viveva in una struttura sociale matriarcale, pacifica ed egualitaria (come suggerisce Marija Gimbutas),  creando una simbiosi con la  natura, tanto da stabilire con essa un rapporto quasi sacrale, testimoniato dalle vergini nere o le dee madri. Stradiotto è dunque proteso a far emergere questo “fluire”, come lo definisce, antico che collega l’essere umano alla natura, e alla convivenza, trasformandolo in paradigma dall’intento educativo volto a far comprendere all’uomo contemporaneo ciò che non ha più. L’artista, per rappresentare visivamente sulla tela questi suoi intenti ideologici, si serve, come si evince guardando le sue opere “Dea madre” (auspicio all’armonia tra uomo e donna), “Divinità sarde” (manifestazione di matriarcalità) e “Guerriero nell’agorà” (conferma dell’avvenuto passaggio al patriarcalismo), di una sua personale reinterpretazione di sculture, immagini e segni già esistenti e che per altro da sempre appartengono al nostro subconscio. Ma non solo. Interviene sulle forme antropomorfe in altri due modi: nel primo, le tratteggia con la tecnica divisionista (usando pigmenti vicini a quelli antichi come le ocre per i soggetti o gli azzurri per sacralizzare il cielo), così da amplificare il crepitare luminoso dei colori; nel secondo, le ammanta di spazialismo, collocandole, salvo quando si serve della prospettiva, in uno spazio non concreto per trasformarle in un’unità contenuta all’interno del cosmo. Così facendo aumenta maggiormente la cifra simbolica dei soggetti, rendendoli ancora più misteriosi e perciò maggiormente affascinati all’occhio dell’osservatore, il quale non può che rimanerne attratto e dunque tentare di comprenderli.  

Pierluigi Campione

Caro Pierluigi
Mi ritrovo nuovamente con piacere, a distanza di anni, a scrivere in merito alle tue foto. Certo è passata quasi una decade dalle ultime parole, ma, sebbene esse argomentavano i lavori da te creati in quel periodo, le trovo ancora oggi essenziali per, parafrasando Ivano Fossati, “riavvolgere il tempo” e poter costruire un ideale ponte tra i vecchi lavori e quelli recenti, presenti nella tua mostra personale presso la galleria L.Sturzo di Mestre, ed approfondire  così alcuni aspetti della tua filosofia artistica. Perciò per ampliarne la mia contribuzione argomentativa attuale, è necessario riportare il vecchio scritto:
“Oggigiorno il panorama culturale che si presenta agli occhi dei fruitori è talmente svariato e rutilante che talvolta diventa evento artistico anche la banalità. La ricerca vera del fare artistico comporta studio, preparazione e pazienza e Pierluigi Campione durante tutta la sua carriera  ha dato prova di possedere queste tre qualità. Infatti, andando aldilà di un semplice sguardo, ci si può rendere conto di come ogni sua opera fotografica sia il risultato di un’attenta riflessione dove nulla è improvvisato.
Tra le varie tematiche che egli ha trattato, spicca quella della compenetrazione tra l’arte della fotografia e l’arte della danza. Quest’ultima già in passato è stata raffigurata attraverso la scultura producendo esiti felici, ma i lavori di Campione sembrano offrire nuove prospettive. Con il suo cavalletto e la sua macchina, fermo e immobile, ha narrato e descritto i movimenti aggraziati, ora lenti ora veloci, e le articolate armoniche coreografie che il corpo sa produrre se ispirato dal ritmo della musica. Ma non basta, si è spinto oltre. Sfidando le contingenze fisiche del palcoscenico, quali ad esempio la quantità di luce ed il suo posizionamento, è riuscito ad imprimere alla foto un magico dinamismo, allontanandosi da una visione fissa e stereotipata dell’immagine statica. In tal modo l’atto artistico del danzare si è trasformato in una sorta di scultura nella quale la plastica, tutta intrisa di velocità, le sciabolate di colore, le movenze e le pose ci rimandano con la memoria sia alle opere futuriste sia a gestualità proprie del teatro classico. Il balletto dunque inteso come esecuzione artistica, con Campione travalica i suoi limiti per divenire altra arte: non solo scultura, ma anche pittura. Osservando l’impianto coloristico e/o chiaroscurale che le immagini fotografiche mostrano, si possono intravedere rimandi sia figurativi sia astratti, fusi assieme magistralmente.
E’ chiaro che la danza nell’opera di Campione non è solo soggetto ma anche pretesto sensibile che egli usa per esprimere momentanee emozioni tramite libertà del movimento. Essa dunque, accostata e fusa con altre dimensioni culturali, grazie all’ausilio dell’arte fotografica, diviene un unicum dove musica, gesti, colori e luci si tramutano in un’inesauribile fonte per le sue  ricerche  intellettuali ed artistiche”.
Dal confronto tra queste parole e l’osservazione delle nuove opere, ci si accorge come le parole “danza” e “movimento” siano i cardini su cui si basa la tua creatività, ma anche come le modalità di espressione che esse rappresentano, sul piano artistico sono state da te evolute in modo variegato. Perciò, chiarendo ed approfondendo ulteriormente i contemporanei significati di danza e movimento è possibile capire e contestualizzare questa odierna esposizione mestrina nella quale, ad osservarla bene, si può ravvisare una strana e casuale dicotomia espressiva e passionale, in quanto le foto proposte sembrano la trasposizione visiva del testo della canzone “Voglio vederti danzare” di Franco Battiato.
Tralasciando il dato tecnico, del quale mi sembra superfluo trattare, viste le tue capacità ed i livelli raggiunti, vorrei sottolineare le ragioni profonde della tua scelta della danza come unico soggetto artistico. Il tutto parte dal connubio tra la tua grande passione per la gestualità nel teatro, che tu hai praticato da giovane, ed la disciplinata cadenza esecutiva della musica, che tu senti profondamente. E per cercare di cogliere con la tua macchina fotografica tale corrispondenza tra i gesti del corpo e le note, ti sei immerso nel teatro per ore ed ore, seguendo prove e prime di spettacoli di balletto, concentrandoti all’occasione anche solo su un’unica ballerina, nel tentativo, tra le innumerevoli foto scattate, di individuare tra le movenze quelle tanto significative da attirare il tuo interesse. Ma non è tutto. Oltre a voler raffigurare questo tuo lato interiore, o per meglio dire  sentimentale, nei confronti della danza, nelle tue pose hai magistralmente fatto emergere anche il lato tecnico-artistico, addensando le immagini di un forte valore estetico, incentrato sull’armonia della composizione, il calibrato bilanciamento della figura e la sua giusta proporzione e il soppesato rapporto tra soggetto e sfondo. Hai posto attenzione scrupolosa anche agli effetti della luce e dei suoi riflessi sul palco, sui corpi e persino sui vestiti e le capigliature dalle danzatrici.
Nell’argomentare, poi, sul tuo concetto di movimento, che si sostanzia su un rapporto di variazione di posizione e velocità tra te ed il soggetto, è doveroso sottolineare come esso all’interno del tuo lavoro manifesti due aspetti: da una parte, quello di essere elemento fondante di una costante e mutevole triade composta, oltre che dal movimento stesso, anche dall’importanza della luce e degli effetti della tridimensionalità scultorea che i soggetti presentano; dall’altra, si sottolinea quanto il concetto di movimento si sia evoluto, rivoluzionando il tuo modo di fare arte. Quest’ultimo aspetto evolutivo del movimento, fa sì che esso assuma, sul piano intenzionale, una  funzione antologica e, soprattutto, fornisca una scansione cronologica alla mostra, nella quale sono perciò identificabili tre fasi. La prima, definibile realistica, si realizza nell’istante in cui tu, da fermo, fotografi la ballerina mentre si sta muovendo, restituendo un immagine statica nella quale forma e colore sono ancora identificabili. La seconda, identificabile come futurista, si genera nel momento in cui tu rimani ancora fermo ma diminuisci i tempi fotografici delle pose, in modo che la forma ed i colori della ballerina in movimento si frantumano in tanti velocizzati e sovrapposti fotogrammi dal piglio boccioniano. La terza, inquadrabile nell’astrattismo, si attua quando anche tu stesso sei in movimento, talvolta seguendo la ballerina o talvolta andando nella direzione opposta, cercando di bloccare il tempo nel momento di tangenza tra te e lei, producendo così un’immagine di sola campitura di cangiante colore dai tratti quasi tonali in cui ogni forma figurativa è oramai scomparsa.

Concludendo, visti questi tuoi felici esiti contemporanei, spero vivamente di ritrovarmi a scrivere di tue ulteriori e mirabolanti evoluzioni nel campo della fotografia, magari esulanti dalla danza  e dirette verso altri soggetti.

Pecorelli - Madre-Vergine

Fin dalla sua comparsa, l’uomo ha cercato di capire e rappresentare le grandi tematiche sensibili che lo hanno visto coinvolto nel corso del tempo, riuscendo a dare loro una interpretazione grazie alla sacralizzazione o all’archetipizzazione di esse. Una tra le più importanti questioni affrontate dall’uomo primitivo è la capacità della donna di essere madre del genere umano e dispensatrice di bontà e di amorevolezza. Infatti fra le più conosciute testimonianze che le civiltà preistoriche ci hanno tramandato, spiccano le piccole sculture denominate Dee Madri. Realizzate in pietra con mezzi espressivi rudimentali, esse si caratterizzano per i tratti antropomorfi, la sagoma chiusa e compatta, la zona pubica particolarmente evidente e, molte volte, l’intero corpo inscritto in un ellisse. Il culto delle Dee Madri si è poi tramandato, sotto forme e rappresentazioni più o meno variabili, a tutte le civiltà apparse successivamente, comprese quella greca, egizia e romana travalicando i secoli e mantenendo sostanzialmente sempre lo stesso significato. Tanto che, anche nell’era moderna e contemporanea, pur su piani culturali diversi, l’uomo si è cimentato in tale misteriosa simbologia, nel tentativo atavico di comprenderla: ne sono esempi, solo per citarne alcuni, Mozart in musica, Jung e Neumann in psicologia, Modigliani in arte e Pasolini in scrittura. Anche Carlo Pecorelli ha voluto mettersi alla prova su questo archetipo così affascinante, privilegiando all’interno della sua ricerca le dimensioni sentimentali umane dell’affettuosità, della comprensione e della protezione materna che il concetto di dea-madre rievoca, rivisitando tali idee attraverso il suo simbolismo scultoreo. Egli ha dato vita ad un circuito espositivo chiamato “La linea dell’acciaio” nel quale sia possibile, grazie al mezzo espressivo della materia, concretizzare le sue riflessioni sull’idea di Madre. Per far ciò, ha piegato il suo rugginoso acciaio corten alla sua personale modalità espressiva, incentrata sul linearismo, e ha dato così vita a forme sensibili, capaci di emanare contemporaneamente significati sia ideali-concettuali, sia visivi. La sua curva si è arrotondata nel cerchio, da lui inteso come una emblematica figura geometrica ispirante non solo equilibrio, centralità e ciclicità eterna, ma anche, al contempo, metafora di abbraccio materno. Percorrendo le tappe di questo tragitto incentrato sul rapporto analogico forma-concetto, ideato da Pecorelli, e scrutando attentamente le opere dai sinuosi profili, si potranno cogliere le sottili evocatività che esse nascondono facendo emergere la primordiale ancestralità di ogni essere umano.

Carlo Pecorelli

Prosegue la rassegna di mostre imperniate sul tema “Nuova arte per nuove identità” organizzate dall’Associazione I.R.I.S. per l’anno 2011. In questa seconda tappa del percorso è il maestro Carlo Pecorelli a cimentarsi sul soggetto proposto, con la mostra dal titolo “Attraverso lo specchio”. Egli individua, con occhio attento e realista, come l’incapacità di comunicare tra le persone, la mancanza di accettazione e l’irrispettosità nei confronti dell’altro, la perdita di valori morali quali l’onestà, la serietà e l’impegno siano le cause della deflagrazione dell’identità contemporanea. Per ristabilire tali virtù e far sì che l’uomo possa ricostituire un dialogo sensato con se stesso e con gli altri, Pecorelli afferma la necessarietà di ispirarsi al passato, in particolar modo al Rinascimento. Questa infatti è un’epoca, afferma l’artista, nella quale l’uomo, uscito dal buio del medioevo, si pone al centro del mondo e, consapevole del proprio libero pensiero, della propria potenza e dei propri mezzi, inaugura un periodo di straordinaria fioritura morale, culturale, artistica e letteraria tesa a favorire la liberalità, la concordia e la solidarietà tra tutti gli esseri umani. Le opere dell’artista sono intrise della sua volontà di offrire una riflessione su questi ideali rinascimentali, che, sebbene lontani nel tempo, possono ancora intendersi come concreta possibilità di redenzione per la nostra contemporaneità. I suoi lavori perciò sono il frutto di un’accurata e sapiente fusione tra la sua personale convinzione filosofica e una sottile simbologia da comprendere attentamente, la quale si struttura secondo determinati passaggi sia esecutivi, sia di interpretazione. Tale modalità creativa verte, come primo momento, sulla selezione oculata di riproduzioni di opere pittoriche di maestri del quattro-cinquecento, i cui soggetti sono santi, Madonne in trono o Cristo, che per Pecorelli non rappresentano solo scene curiali ma incarnano simbolicamente in modo pregno gli ideali di rinascita morale, tanto da travalicare la dimensione religiosa e divenire una “sacra” epigonizzazione dell’uomo stesso. Successivamente, egli colloca in modo giustapposto tali immagini, talvolta elaborate da lui stesso, in una architettura d’ispirazione metafisica tratteggiata da linee. Queste danno perciò origine ad uno spazio tridimensionale ideale nel quale si crea un luogo che va oltre il dato reale per divenire dimensione della mente, inducendo così il fruitore all’osservazione dell’immagine, vero fulcro del dipinto. Accanto all'iconografia rinascimentale, il pittore delimita, sempre tramite l’utilizzo di linee, metaforiche porte che hanno il compito di favorire il passaggio tra il passato virtuoso, rappresentato dalle immagini, e il nostro presente precario, identificato con le strutture geometriche. A chiusura del cerchio dell’opera così composta, perviene la stesura del colore impostato su un contrastante monocromatismo, che a volte appare screziato come a rappresentare metaforicamente lo sgretolamento dei valori veri dell’uomo contemporaneo. Talvolta l’opera è arricchita da una piccola mascherina dipinta, dalla duplice funzione: da un lato, impersonifica idealmente lo stato d’animo dell’artista, il quale, da una posizione privilegiata, è partecipe del simbolismo del dipinto, dall’altro, essa favorisce e accentua il traslato scambio tra opera e fruitore. Nasce così una composizione impostata su un estremo equilibrio compositivo e su un calibrato bilanciamento delle parti, che, come negli artisti del Rinascimento, non è solo concreto ed oggettivo, ma, soprattutto, mentale e spirituale, permettendo all’uomo di ristabilire quel dialogo antico e vero con la natura, con le virtù e con i suoi simili. Allo stesso modo, su tali bilanciamenti sono impostate le sue sculture in acciaio corten o microsfere di vetro, le quali si originano dal vagare della linea curva che spesso si arrotonda nella sfera, forma d’equilibrio per eccellenza. Tali linee danno vita a profili astratti, sinuosi e liberi dalla greve plasticità per librarsi libere nell’aria come lo spirito dell’artista.