giovedì 4 dicembre 2014

Eleonora Mazza e Kiyomi Sakaguchi

Sono veramente lusingato di aver presentato l'interessante mostra di Eleonora Mazza e Kiyomi Sakaguchi inauguratasi al ridotto del teatro Titano in San Marino. Ho avuto infatti l'occasione di poter argomentare non solo su due modalità creative che si confrontano su un tema comune, ma soprattutto su due mondi diversissimi che tuttavia dialogano tra di loro: quello occidentale e quello orientale. Le artiste si sono cimentate su un tema  di non facile analisi come quello dell'identità contemporanea soprattutto se visto con intenzionalità sia antropologiche che metaforiche, come esplicitato nel titolo stesso della mostra: “Erosioni”. Affermo questo perché tale argomento offre molteplici spunti analitici, cominciando proprio dall'interpretazione del significato del titolo stesso.
La mostra rappresenta l'influenza combinata di un'allegorica erosione geologica, raffigurata dall'azione di agenti meteorologici che provocano la consunzione e la riduzione progressiva delle rocce e di una paradossale metamorfosi psicologica che l'essere umano compie nel passaggio da un'antica ad una nuova forma interiore. Quest'ultima è da intendersi perciò come nuovo stato destinato poi ad essere perpetuamente eroso attraverso un'infinita serie di successivi processi di modificazione. Come il mondo viene modificato dalle forze della natura, così l'uomo subirà i cambiamenti imposti dal progredire della sua anima.
Ogni nuovo stato creato diviene perciò nuovo stato mentale dell'essere umano il quale ha perciò d'innanzi nuovamente la possibilità di scegliere e di emergere dalla fluidità.
Per introdurre le due modalità creative, sulla scorta di quanto detto, interpreterò l'analisi della mostra come un percorso all'interno di una ideale casa dello spirito, nella quale è racchiuso l'Io creativo delle due artiste.
            Aprendo il cancello si entra nel giardino e subito si possono notare le sculture di Kiyomi.  Esse sono da interpretarsi come similitudini concrete e tangibili di elementi  naturali, appena fuoriusciti da  un mitico e deflagrato vaso di Pandora che li ha sparsi sulla terra. Questi frammenti di natura sono sottoposti all'interventazione dell'artista giapponese, la quale, agendo  come  il tempo che unitamente agli agenti naturali (fuoco, aria, acqua e vento) corrode i sassi, le piante e gli alberi, li modifica logorandoli ed escavandoli, evolvendone in tal modo la forma e perciò lo stato. Tale modificazione che Kiyomi attua, è da intendersi idealmente un continuo cambiamento immanente e perciò mai statico o uguale dell'Io umano, identificato allegoricamente nelle sculture. Così come la sostanza naturale delle opere muta costantemente, assumendo sempre nuove forme, poi sottoposte a futura e persistente mutazione, così anche l'essere umano deve sottoporsi ad una sorta di purificazione interiore che, evolvendolo, lo libera dalla fissità, sia fisica che interiore, e dalle sue scorie passate proiettandolo nel futuro. Dunque per Kyiomi l'uomo, per non soccombere a causa dei propri “accidenti” superflui che ne appesantiscono l'animo, è dunque obbligato a mutare costantemente e compiere un continuo  percorso interiore, senza mai fermarsi, volto alla comprensione della propria essenza, quello che realmente è, perfezionandola e traendone così benefici. 
Osservando l'insieme delle opere dell'artista giapponese, si intuisce che esse non siano solo epigoni concreti del suo intento creativo, ma anche che queste si possano intendere come momenti tangibili di una pratica di vita individuale, fatta di austerità, sublimazione ed esercizio, volta alla coltivazione del proprio Io interiore ed alla percezione della bellezza e della grazia e che ella, oltre a perseguire con intenti anche sociali, ci invita ad iniziare.
            Superato il giardino, e aperto l'uscio di casa, si accede alle stanze dello spirito e dei ricordi di Eleonora Mazza. Osservando i suoi dipinti subito si percepisce come per lei sia importante sottolineare la necessità dell'essere umano di recuperare la propria identità smarrita e la capacità di comunicare. Ma a differenza di Kiyomi, la quale toglie per evolvere, ella interpreta il significato di erosione interiore al contrario: asportare significa involvere. Dunque  l'immagine dell'uomo quando  è sottoposta ad una negativa consunzione identitaria perde la sua sostanza, cioè la sua essenza. Da questo stato di smarrimento, però, secondo Eleonora Mazza, l'uomo può uscirvi, basta che voglia interpretare questa indeterminatezza come possibilità di progresso interiore e non perenne insicurezza. Il suo modo di evidenziare, nonché rendere visibile, questo stato di indefinita incertezza, sia collettiva che individuale, l'ha portata a rivedere il suo ruolo di artista trasformandosi da creatrice in soggetto stesso dell'opera, assumendo le qualità di paradigma della società. In tal modo ella ha dovuto e voluto, allo stesso tempo, compiere un percorso di autoanalisi per eliminare le cose negative che la consumavano, trattenendola, e ritrovare, ricostruendole, le proprie certezze interiori. E per rappresentare iconicamente questa analisi introspettiva, ha creato una personale e singolare interpretazione della pittura fatta di ideali fotogrammi. Questi ultimi si addensano di suggestive atmosfere fatte di stravolti, scarnificati e deflagrati volti e corpi, con disordinati e dismessi oggetti quotidiani, immersi in straniati, indefiniti ed evanescenti sfondi d'interni, dove tutto è reso ancor più stemperato, se non consunto, dai toni pacati, slavati e contrapposti dei colori. Attraverso queste foto costruite con il colore, l'artista oltre a rappresentare le incertezze sopracitate, è riuscita ad  infondere in esse un percepibile senso del suo ritroso autobiografico, nel quale le amenità del passato, seppur tratteggiate da un sottile velo di nostalgia, le hanno permesso di  ritrovare la necessaria concretezza recuperando così la volontà di affrontare l'ondivago futuro.
Dunque grazie al potere di questa rappresentazione, quasi taumaturgica, Eleonora Mazza, persona sensibile e dallo spiccato senso analitico, ci induce a concepire la vita liquida (come afferma Z. Bauman), quale momento non solo di riflessione  sulla nostra condizione umana, ma, soprattutto,  di desiderio insopprimibile di crescita della nostra identità.
            Concludendo, credo sia interessante sottolineare come Kyiomi Sakaguchi ed Eleonora Mazza, seppur distanti geograficamente fra loro, siano riuscite ad offrire  una modalità per affrontare il disagio che la metamorfosi impone all'uomo di ogni tempo e latitudine. 

Gianmaria Potenza

Ha ragione il maestro Potenza quando afferma che prima o poi la fortuna arriva sotto forma di occasioni inaspettate. Scrivo questo perché già non molto tempo fa ho avuto modo di intrattenermi con lui beneficiando del suo aiuto, in termini di ricordi scolastici, per la stesura di un breve testo su l'operato di Giorgio Wenter Marini, figura capitale per l'Istituto Statale d'Arte di Venezia. E la mostra in corso presso la galleria “L. Sturzo” mi ha offerto un'ulteriore proficua occasione per parlare nuovamente del suo lavoro. Se poi a questo si aggiunge che il mio primo testo critico - era il 1990 - riguarda proprio la sua produzione artistica, non posso che esserne felice e ritenere fortuita questa circostanza.
            Queste righe sono perciò il frutto di riflessioni ricavate da un recente dialogo-intervista tra me e l'artista. E devo dire che sarebbero molti gli argomenti da sottolineare, ma credo che quello da evidenziare maggiormente, in quanto ad esso è riconducibile tutto il suo agire artistico passato e futuro, sia la robusta concezione che Potenza ha dell'idea di Arte: essa è per lui un amalgama tra  un'emozione ed una sensazione, entrambe istintive, che nascono, metaforicamente, dal suo cuore e che, attraverso l'ausilio dello studio, o meglio della mente, si concretizzano tangibilmente in un'immagine. Dunque una sorta di percorso creativo del “sentire”, il quale parte dal suo Io più profondo e che, una volta realizzato, gli regala contentezza e soddisfazione personali. E sulla scorta di quanto affermato poc'anzi, è palese che per Potenza l'arte ha lo scopo di stabilire una complicità interiore tra l'artista ed il fruitore, protesa ad instaurare fra i due un sentire comune e condiviso. Queste affermazioni non possono che appartenere ad una personalità che sul piano interiore si manifesta estroversa, gaudente e positiva nel porsi d'innanzi alla vita, mentre su quello creativo essa evidenzia versatilità, eclettismo ed una forte volontà propositiva nel lavoro, sempre protesa a, come afferma egli stesso, “buttare fuori idee, le quali a loro volta chiamano altre idee”.
            E' chiaro che questo suo modo di porsi in ambito artistico non solo ha influenzato tutto il suo agire ma si è pure riverberato sulle opere, anche quelle più eterogenee, rendendole chiaramente identificabili quali sue creazioni. Tale riconoscibilità è presente in Potenza fin dagli albori della sua attività, quando cimentandosi con la figuratività, egli l'ha da subito stilizzata elaborando una sorta di marchio di fabbrica, il quale, grazie allo studio e alla ricerca, si è evoluto in modo complesso lungo lo scorrere del tempo per concretizzarsi in un personale linguaggio, che, appunto, lo identifica subito distinguendolo dagli altri. L'artista ha quindi creato una sorta di criptico alfabeto, o simbolo-gramma, impostato su prismi a base rettangolare o circolare, dalle variabili altezze, che riveste tutti i lavori, sia bidimensionali (arazzi, carte) sia tridimensionali (pittosculture, sculture). Tale codice, accentuato molte volte nella sua percezione estetica da un'accattivante, variegata, e pur sempre giustapposta, mescolanza  del colore, impregna le opere di una forte vibrazione chiaroscurale simile ad una texture, che travalica il dato estetico, seppur seducente, per ammantarsi di un forte valore simbolico intrinseco alle forme stesse e che sfocia, addirittura, in una dimensione etnografica. Infatti l'insieme degli elementi che costituiscono questa sua enigmatica scrittura è il frutto di un'intensa osmosi che l'artista ha con la sua città: Venezia. Potenza ha infatti un rapporto intimo, se non amoroso, così forte con questo luogo da essere riuscito a captarne l'anima più nascosta, originale, sostanziale, rimanendone ammaliato e ricavandone sensazioni, emozioni ed idee. Ciò è stato reso possibile perché egli non ha solo osservato attentamente, ma ha soprattutto vissuto metaforicamente le atmosfere, le luci, i colori, i riverberi, le forme e le strutture celate reconditamente dentro scorci di calli, palazzi, edifici, monumenti, pitture, sculture e canali, con i loro riflessi d'acqua perpetui, elaborando quindi questi elementi nel suo cuore per poi traslarli sotto forma di allegorie visive nel suo alfabeto archetipo. Così facendo tutte le sue opere risultano intrise di un caratteristico gusto personale che nel suo insieme rimanda ad una matrice culturale veneziana. A conferma di ciò, basta paragonare, ad esempio, la vibrazione tattile e visiva dei volumi ai riflessi ondeggianti dell'acqua nei canali o i simbolici cilindretti ai dischi marmorei delle patere o, infine, osservare i rimandi oggettuali delle inserzioni di vetro di Murano nei lavori. Ma non solo. Tale sapore lagunare fa emergere anche riminiscenze sapienziali bizantine, come si evince, per esempio, nelle accattivanti alternanze luminescenti tra la brunitura e la patina dorata del bronzo, le quali assumono valenze addirittura ieratiche in cui la luce, come negli ori delle icone, perde i connotati fisici e reali per divenire manifestazione divina; oppure come si può notare nell'uso volumetrico, screziato e sfaccettato delle tessere musive rievocanti i mosaici marciani.
            Questo amore  così pregno e sensibile che Potenza nutre per la sua città è presente in lui  ancora prima di instradarsi nella carriera d'artista. Infatti, da giovanissimo, si recava nelle chiese ad osservare le varie opere d'arte, in particolare le pitture di Vittore Carpaccio delle quali focalizzava  con attenzione anche i particolari più apparentemente marginali, come le rifiniture delle decorazioni di vesti e drappi presenti nell'opera. E grazie alla frequentazione presso l'Istituto Statale d'Arte, scuola che gli ha fornito le conoscenze e le modalità progettuali ed esecutive, imparando un'infinità di tecniche artistiche ed usando i più disparati supporti, egli ha avuto la possibilità di esternare questo amore e  concretizzarlo in modo più compiuto, come dimostrano le sue produzioni, siano esse tessute, musive, pittoriche, parietali, scultoree o pitto-scultoree, sia di piccole che di grandi dimensioni. Perciò, per saper cogliere sino in fondo le opere di Potenza bisogna interpretarle come i risultati di una riflessione artistica in cui egli, per dare corpo alle sue idee, si serve dei più svariati mezzi espressivi, che possono essere realistici, astratti e simbolici, fondendoli con le caratteristiche zoomorfiche, fitomorfiche o geometriche intrinseche del soggetto individuato. Egli crea così una nuova forma astratta, la quale viene ultimata ed amplificata dal rivestimento dell'alfabeto “potenziano”. Il risultato conclusivo dunque è un soggetto-oggetto traslato sia nel significato (cosa significa) che nel significante (come si mostra), frutto di un'elaborazione plurima, tra cui spiccano intellettualità, espressività ed esecutività.
            Oltre a quanto sopra, sempre per godere appieno del lavoro dell'artista, va altresì aggiunta un'altra fondamentale caratteristica: Potenza è scultore. Egli dunque codifica tutto quello che sente, vede, respira e crea attraverso i canoni ideali della scultura, soffermandosi perciò sull'esaltazione della tridimensionalità, sul rapporto tra materia e spazio e sulla vibrazione dei volumi, come ben si evince, per contrasto, nelle opere  impostate bidimensionalmente.

            Concludendo questa mia dissertazione, per altro non esaustiva, in merito alla figura di Gianmaria Potenza, credo sia doveroso ricordare, senza retorica, come tale solido e concreto artista sia uno dei principali maestri che ancora oggi mantengono viva la cultura artistica veneziana, facendola conoscere nel mondo, ma soprattutto mostrandone le peculiarità distintive.

giovedì 4 settembre 2014

Gilberto Sossella

E' accaduto a molti artisti nel corso della loro carriera, come testimonia la storia dell'Arte, di infatuarsi, anche in modo ossessivo, di un determinato soggetto, che li ha affascinati, o addirittura stregati, per anni o per il resto della vita.
Questo suggestivo innamoramento artistico ha colpito anche Gilberto Sossella, il quale, provenendo da una formazione iconografica scientifico-divulgativa (disegno anatomo-chirurgico-istologico) e pubblicitaria in campo farmacologico, è passato da rappresentazioni vicine all'iperrealismo a esiti astratti in cui la curva diventa elemento cardine della sua creatività. Essa è così prevalente nel ritmo compositivo da tramutarsi quasi in una elaborazione ossessiva che, spesso, lo condiziona.
E’ passato da un estremo all'altro in modo apparentemente immotivato, verso una nuova, personale e libera interpretazione dell'astrattismo, impostata su un robusto concetto geometrico emancipato dall'oggettività.
Ma non è tutto. Infatti se la curva, da un lato, genera ritmi e armonie geometrico-visive in cui è riconoscibile, quale elemento catalizzante, un paradossale equilibrio generato da personali tensioni contrapposte, dall'altro, essa si trasforma in una sorta di “segno dei sentimenti” pregno di emozionalità e teso a sollecitare sia il dato percettivo che quello emotivo-riflessivo dello spettatore.
Questo fervore ha portato Sossella, come si è accennato prima, ad una nuova pittura, la quale ha anche contribuito alla mutazione del suo approccio creativo. Quest'ultimo si è arricchito di un valore intimista sostanziato su una personale ricerca del bello euritmico, da interpretarsi come vettore di percorsi visivi, capace sia di celare pudicamente l’interiorità più intima dell’artista, preservandolo da inutili e patetici esibizionismi, sia di suscitare stimoli cerebrali sul piano estetico e sensibile.
Egli, oltre ad evolvere il proprio pensiero concettuale, spinto dal desiderio di approfondire questa seduzione, è stato anche capace di attribuire alla curva una dimensione evolutiva. Ciò ha permesso all'artista, da un lato, di non cadere nella ripetitività fine a se stessa e, dall'altro, di sedimentare le fasi evolutive di tale coinvolgente indagine. E così, evitando di impostare l a superficie del quadro su schemi preordinati, il pittore, grazie all'ausilio di pennelli e spatole, ha steso spessi strati di tormentato e materico pigmento acrilico per comporre un accordo di forme geometriche, che si contrastano o si accostano e compenetrano fra loro, e linee spezzate nelle quali sono riscontrabili i diversi momenti creativi.
Si possono individuare infatti due fasi esecutive. La prima è impostata su bilanciate ed equilibrate nonché, allo stesso tempo, antitetiche forme, evidenziate da accese ed evidenti disarmonie pigmentose, a tratti tonali, dalle quali emerge, in una limitata porzione del quadro, il più visivamente contrapposto e sensibile particolare che attrae lo spettatore.
La seconda fase è imperniata sulla rottura della curva e la smorzatura dei colori, grazie alla sovrapposizione di gamme di grigi trasparenti (a volte con l'aggiunta da velature ad olio), che infondono all’opera profondità cromatica e serenità compositiva in grado di armonizzare le immancabili dissonanze sopracitate.
È proprio in quest'ultimo momento creativo che un rinnovato kunstvollen spinge Sossella, ad abbandonare definitivamente i rimandi concreti dei suoi costrutti per cercare sul piano mentale un nuovo equilibrio dai tratti eterei. Tale operazione non potrà che essere portatrice di nuovi e significativi risultati.
Magari, perché no, un diverso percorso post-informale.

venerdì 2 maggio 2014

Guerrino Boatto

Quando ci si trova d'innanzi ad un lavoro pittorico del maestro Guerrino Boatto, soprattutto se osservato velocemente, capita facilmente di scambiarlo per una fotografia. Ciò si verifica perché troppe volte, immerso nella frenesia contemporanea, l'osservatore guarda frettolosamente ed in modo pressapochista l'opera d'arte. Se invece ci si sofferma a mente aperta su quest'ultima e la si analizza anche nel più piccolo dei particolari presenti, andando oltre l'intensità della mimesi raffigurata, si può cogliere a pieno la sottile poetica dell'artista, composta dal connubio tra l'idea di arte e quella di funzionalità che essa possiede intrinsecamente. Questo è possibile perché Boatto è uno di quegli artisti in cui l'opera, anche in virtù della sua complessità,  riflette fortemente il rapporto tra produzione artistica e vita. Infatti il suo concetto di arte assume una dimensione ideale di intima e personale riflessione, lontana da esiti sociologici o sperimentali, la quale si sostanzia sulla volontà di mettersi sempre alla prova sul piano creativo, per carpire le verità degli elementi,  traendovi, come afferma lui stesso, piacere e divertimento. Ma per evitare che tale proponimento di mettersi sempre alla prova, nel tentativo di comprendere le cose del mondo, non diventi un desiderio troppo acceso tanto da distoglierlo dalla sua introspettiva ricerca, l'artista ha saputo trasformarsi in una sorta di monaco zen, che vede nella creazione dell'opera d'arte non una volontà di esagerazione fine a se stessa ma una sorta di meditazione e di preghiera.
            E per concretizzare iconicamente questi suoi pregni intenti e convincimenti, da un lato, ha preso come pretesto, o meglio soggetto, la natura e l'ha indagata in profondità, soffermandosi non solo sul dato naturale vero e proprio, raffigurando, ad esempio, elementi o contesti agresti e bucolici, ma anche sulle creazioni dell'uomo, come le automobili, in particolare quelle americane degli anni cinquanta del secolo scorso, o paesaggi antropici, nonché sull'uomo stesso; dall'altro, si è avvalso  dell'Iperrealismo, mezzo espressivo pittorico, concepito quale sommo atto descrittivo della realtà, che è perciò “...intesa per quella che è...”. Tale modalità esecutiva, strutturata su una magistrale fusione tra l’aerografo, usato per gli sfondi e le grandi campiture, e svariati pennellini, adoperati per i particolari anche più minuti, sebbene risulti talvolta impersonale, nel corso del tempo si è così evoluta da divenire una sorta di marchio di fabbrica, sempre riconoscibile, di Boatto. Dunque, emerge preponderante l'uso pittorico che l'artista fa della luce: essa ha la funzione di creare vibrazioni, contrasti e riverberi che accentuano il dato della veridicità naturale, come si può notare nelle cromature delle auto, simili a specchi, che riflettono e, allo stesso tempo, deformano le immagini, ricreando in tali casi le terse luminescenze tipiche degli assolati e caldi territori dell’ovest americano. Differentemente negli scorci veneziani, nei quali i contrasti tra il chiarore ed i colori degli edifici sono ancora più accentuati dai riflessi continui dell'acqua, il pittore manifesta la sua matrice pittorica veneziana captando e facendo risaltare le umide e nebbiose arie della città lagunare.
            Oltre a tutto ciò, non va dimenticato che le opere, come puntualizza lo stesso Boatto, sono anche un surrogato visivo nel quale si può intravvedere non solo l'intenzionalità intellettuale dell'artista ma anche alcuni aspetti della sua personalità. Quest'ultima, infatti, si palesa grazie ad una strana atmosfera simbolica presente nei lavori, originata dal legame tra il processo esecutivo, che inizia con l'individuazione di un determinato soggetto concreto, passando poi ad una estrapolazione fotografica dell'immagine e concludendosi infine nella sua riproduzione pittorica, con l'aggiunta di alcune personali interpretazioni in grado di originare sottili ambiguità ed ironie, tanto care all'artista.
            Gli esiti contemporanei a cui Guerrino Boatto è giunto, è doveroso ricordarlo per non cadere in una interpretazione manieristica dei suoi lavori, non gli derivano dalla sola, seppur elevata, abilità tecnica, perfezionata scolasticamente all'Istituto Statale d'Arte di Venezia, ma sono il frutto di una lunga progressione sempre sostanziata da sensibilità, capacità, istanze culturali e tanti anni di esperienza creativa, accumulata sia nell'ambito della grafica pubblicitaria, imperniata sulla sintesi simbolica, sia in quello della vera pittura. Ed è proprio da quest'ultima che l'artista si sta nuovamente evolvendo in due direzioni: la prima si volge verso il realismo pittorico, come testimonia il suo splendido “San Sebastiano”; la seconda va verso la decodifica del settecentesco vedutismo veneziano di Canaletto e Bellotto, interpretandolo con il suo iperrealismo per coglierne le differenze. 

lunedì 14 aprile 2014

Giancarlo Novello

E' oramai da qualche anno che conosco il maestro Giancarlo Novello ed i nostri incontri sono sempre avvenuti durante i chiassosi momenti che precedevano, o concludevano, le inaugurazioni di mostre collettive. Ma durante una vernissage dicembrina a Jesolo, l’artista mi invitò a fargli visita nel suo studio. Sono sempre stato un sostenitore della teoria, vista anche la mia esperienza televisiva, secondo la quale per espandere la conoscenza dell'operato di un artista, bisogna sapersi soffermare ad osservare anche gli aspetti più reconditi o quotidiani, ma oltremodo sensibili, che si possono riscontrare solo negli spazi privati dove egli crea. Così quando Novello mi propose di andare nel suo studio, accettai di buon grado. Una gelida mattinata d'inverno partii alla volta di Jesolo Lido. Giunto in città, imboccai una deserta e desolata via Bafile, dirigendomi verso il faro. Arrivato all'ultima piazza, svoltai per immettermi in una parallela della “rambla” jesolana e proseguii. Ad un tratto scorsi un anonimo e cupo palazzo, figlio delle architetture della seconda metà del Novecento. Parcheggiata l’auto, mi misi alla ricerca dello studio. Non fu difficile trovarlo. Sul lato destro, prospiciente la strada, si scorgevano delle vetrate dalle quali si potevano vedere quadri, sculture ed altri lavori d'arte. Giunto all'entrata, inizialmente non feci particolarmente caso a ciò che vedevo e bussai alla porta. Fino a quel momento, avevo avuto l'occasione di visitare parecchi studi d'artista e molti di essi, per esempio quello di Oddino Guarnieri che sembrava una scatola di colore, mi avevano colpito ed entusiasmato. Ma nel momento in cui aprii la porta, un po' rigida da spingere, e mi inerpicai su una improvvisata scala di legno, aggrappandomi ad un precario corrimano, mi trovai d’innanzi ad una realtà parallela al mondo reale: un amalgama artistico confusionario, ma allo steso tempo pregno, fatto di innumerevoli quadri, grandi e piccoli, pittosculture, statue, resti di sculture, barattoli di stucco, tubetti di pigmento, pennelli, spatole, carte, telai, cornici e molto altro ancora. Su tutto troneggiava, seduto e rannicchiato su una seggiola, proprio lui, il maestro Novello, intento a spatolare un’ulteriore opera. L’atmosfera si percepiva in modo molto forte e denso: essa era intrisa di colore, anzi di un turbine di colori veneziani, o meglio, “buranelli”, fatto di tonalismi, campiture, virgolettate, visioni, emozioni, sensazioni, vibrazioni e suggestioni lagunari.
Iniziammo subito a parlare d’arte. Durante la discussione, si palesò tutta la conoscenza e la densità intellettuale ed artistica di Novello. A un certo punto il dialogo si focalizzò sul concetto di arte, ed io chiesi all’artista di darmi una sua definizione del significato di tale parola. Egli non mi diede una risposta concettuale, ma affermò di aver avuto solo la fortuna di essere nato dentro un limo artistico che, durante la prima metà del secolo scorso, aveva trasformato la piccola, territorialmente parlando, isola di Burano in un grande, sul piano intellettuale, luogo fecondo per il sapere, perché frequentato da artisti e uomini di cultura, i quali gli avevano permesso fin da bambino di vivere in mezzo all’arte. E una di queste personalità è stato proprio lo zio, Francesco Trevisani, pittore e decoratore, che lo prese, come garzone, a bottega e gli insegnò il mestiere.
 Dalle considerazioni emerse in questo nostro primo incontro, e anche in quelli avvenuti successivamente, tenendo conto della fortuita fatalità di essersi trovato al posto giusto ed al momento giusto, nonché delle vicissitudini che hanno segnato la sua vita, si comprende l’importanza della componente biografica nell’operare artistico di Novello e come questa lo ha sempre contraddistinto col passare del tempo. Alla luce di quanto scritto, e tenendo presente che, come afferma l’artista “…la pittura non è un fatto unico…”, credo sia possibile argomentare sulla sua opera attraverso un’esposizione cronologica, per altro non del tutto esaustiva vista la mole di opere realizzate, del suo lavoro.
Pertanto è significativo ricordare che, dopo l’iniziale momento giovanile della formazione, Novello entrò nel variopinto e spumeggiante mondo dell’arte della città lagunare, partecipando a numerose mostre, ed affermandosi come pittore figurativo intriso della sicura tradizione veneziana e di intimismo. Trascorrendo momenti felici, gioiosi e divertenti, amava dipingere immerso nella natura.
Passarono gli anni ed il pittore, sebbene continuava a dipingere alla vecchia maniera, sospinto dalla curiosità, continuò a ricercare per imparare tecniche nuove che lo affinassero e lo rendessero più versatile se non, a volte, sperimentale. Sulla scorta di tali studi, e di nuove esigenze sia interiori che intellettuali, egli inaugurò un parallelo percorso imperniato sulla pittura astratta dai tratti espressionisti, per evadere dall’affascinante realismo ed indagare liberamente, infrangendo le forme, le emozioni e successivamente decodificarle con il colore.  
            A causa poi di un periodo cupo della sua vita, l’artista subì un momento di blocco creativo e la sua ispirazione sembrava scomparsa, tanto che smise di dipingere. Ma l’avvicinamento allo studio delle vite di artisti conclamati, quali De Chirico, Renoir ed altri,  lo stimolava e lo influenzava a tal punto che riuscì a rimettersi in moto e superare lo smarrimento, imprimendo addirittura un’accelerazione alla sua euresi.
Con rinnovato entusiasmo e sospinto da mutate istanze artistiche, e forse per creare un legame tra il vecchio Novello e quello nuovo, sentì la necessità di far convivere in modo dicotomico il ricordo sereno della rappresentazione della natura con l’evasione sentimentale da essa, interpretata dal libero colore, accostando sullo stesso supporto bidimensionale della tela il figurativo con l’astratto. Successivamente tale dicotomia a cavallo tra passato e futuro, venne ulteriormente incrementata di un altro aspetto: quello diaristico. Con quest’ultimo arricchimento, il pittore volle sedimentare giorno dopo giorno ciò che viveva e gli accadeva, accentuando in tal modo la dimensione biografica. Su questa singolare forma di libro costruito su quadro, Novello scriveva, con il colore, come una sorta di amanuense, le antiche, realistiche, e le nuove, astratte, pagine della sua vita. Ma non è tutto. Questa sorta di pittoscultura si evolse ed inaugurò una nuova fase creativa: sul lato della pagina informale, il pittore collocava una sorta di scultura, fatta di tela irrigidita, che chiamava “Anima”, la quale, con i suoi pieni e vuoti, oltre ad aumentare la tridimensionalità, voleva rammentare ancora più prepotentemente l’aspetto biografico, esorcizzando un particolare e triste momento trascorso.
Ultimamente, superato anche tale frangente artistico, Novello, sebbene continui a colorare anime, sospinto sempre dalla sua irrefrenabile curiosità, ha inaugurato un nuovo dualistico stadio creativo-biografico. Egli infatti ha sentito la necessità, da un lato, di far sintesi di tutto quello che ha indagato in passato, iniziando a far “sfiorire” la pagina astratta, per rivestire con altri significati le sue emozioni, dall’altro, di inserirsi nella scia dell’Optical Art, creando nuove opere, fatte di squarci di colori dipinti su cerchi sovrapposti, che girano spinti dall’osservatore, facendo emergere così anche il dato sensoriale.

Concludendo, non posso non ricordare il fatto che Novello ha praticato, e tuttora continua,  anche la scultura. Essa è da lui usata non solo per concretizzare un soggetto, ma anche per indagare i concetti di forma e tridimensionalità. E per realizzare tali lavori, l’artista si è servito sia del realismo, del simbolismo, che della loro fusione, creando opere che rimandano all’ambiente lagunare (come, ad esempio, i rematori su barca), ad una natura simbolica (si vedano i grandi animali) e alla metafora (come il grande angelo-tronco, composto interamente da una miriade di “anime”) quasi tutti spruzzati da quel suo vibrante colore che gli rammenta sempre la sua Burano.

lunedì 7 aprile 2014

Ana Celtran Beltran

In molti testi critici per illustrare la poetica di un artista, ci si sofferma maggiormente sulla trattazione delle sue opere, descrivendole e contestualizzandole in modo approfondito, col rischio però di evidenziare principalmente, relativamente alla generazione dell’opera, gli effetti piuttosto che le cause intrinseche all’artista stesso. Oppure, talvolta, si compiono, seppur interessanti, voli pindarici tesi a collocare il tal pittore in un determinato movimento o ad accostarlo al maestro famoso, evitando tuttavia di soffermarsi approfonditamente sul suo Io creativo. Secondo tali modalità critiche, sebbene si riesca comunque a delineare l’operato di un artista, spesso si tralascia di far emergere il processo creativo, la sua filosofia artistica e le sue motivazioni interiori ed intellettuali.
Questo scritto non ha perciò l’intenzione di disertare sulla personale visione antropocentrica e filantropica che si evince guardando le sculture di Ana, nelle quali, la mimesi figurale, intesa come idea di natura, è immersa in un’atmosfera simbolica dai tratteggi stilizzati, bensì di cercare di far emergere le motivazioni e le attuazioni, a livello interiore, che sostanziano in modo costante e continuo  l'esecuzione dei suoi lavori. Dunque mi avvarrò, di una modalità didascalica frutto di una mia rielaborazione ponderata delle discussioni avute durante alcuni incontri informali, presso la galleria L. Sturzo a Mestre, tra me e l’artista stessa, tesa a far emergere alcuni punti focali della sua creatività, ed inizierò, come primo punto, proprio dalla definizione che lei dà dell’idea di Arte. Quest’ultimo concetto è per Ana da intendersi, prima di tutto, come un momento di vita interiore, pertinente alle emozioni, libero da qualsiasi (auto-) inganno e (auto-) falsità in ambito artistico, e anche morale, che l’artista sente la necessità di esprimere attraverso un mezzo di comunicazione visivo, concreto e diretto, costruito tramite parametri di conoscenza, cultura, abilità tecnica e “consapevolezza dei materiali” per se stessa e gli altri. E per evitare che il messaggio veicolato sia espresso male, perché non sincero, confuso o, addirittura, incompreso, esso deve essere capace di  mostrare un significato riconosciuto e condiviso, a livello subconsciale, da tutti. Con tali basi concettuali, l’artista non può che essere cosciente del progetto generativo ed in grado di giungere ad un risultato il quale, una volta plasmato nella materia, sia, allo stesso tempo, sublime nel concetto ed essenziale nelle forme.
Da queste argomentazioni deriva il concetto di finalità dell’arte, da intuirsi come una necessità intimistica ed interiorizzata rivolta a toccare celatamente le corde spirituali, morali, intellettuali ed estetiche dell’animo umano. In tal modo l’opera si trasforma in una visione aperta atta a riverberare le componenti di cui è frutto: esperienza, storia, biografia. Ma non è tutto. Tali elementi si trasformano poi in principi costituenti la conclusione tangibile di una  prassi creativa interiore che porta alla realizzazione della scultura. Tale percorso  inizia con la comparsa delle  idee, da desumersi come armonico connubio di emozioni e quesiti sull'universale, nel cuore dell’artista, le quali poi transitano nella sua mente dove si ordinano sul piano sensoriale per catalizzarsi un una visione antropomorfa dalle valenze simboliche assolute e composta di pura tridimensionalità la quale sembra muoversi da sempre in uno spazio e in un  tempo virtuali. Successivamente tale concezione oramai meditata dall’interiorità della scultrice, attraverso le mani, si tramuterà in sostanziale e tangibile soggetto: un corpo umano. Quest’ultimo per l’artista è concepito quale rappresentazione teorica di un archetipo in grado di avvicinarsi ad un concetto generale e totalizzante di essere umano, perché proteso a manifestarsi in infiniti, ma sempre affascinanti, modi del suo essere. Ciò è confermato anche dal fatto che le figure, per assumere una dimensione concettuale, quasi vicina ad uno stato d’animo, hanno perso quei particolari anatomici, quali la sessualità e la definizione dei volti (usati dall’artista solo quando è necessaria un’ulteriore valenza estetica),  che altrimenti le ancorerebbero alla concretezza fisica e realistica.

            Concludendo, ritengo un evento positivo il fatto che Ana per migliorare ulteriormente le sue già vaste conoscenze sul corpo umano, e capire di esso l’organicità e le armonie, abbia deciso di studiare anatomia presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia ed successivamente voluto risiedere stabilmente nella città lagunare. In tal modo il pubblico veneziano potrà conoscere le sue opere, ma, soprattutto, arricchirsi culturalmente con gli esiti futuri, e forse indirizzati verso una visione astratta, della sua scultura.

domenica 19 gennaio 2014

Stefano Stradiotto

La frenesia contemporanea ha condotto l’uomo verso uno smarrimento morale, ed a una conseguente perdita di ciò che egli, un tempo, riteneva veramente importante. Stradiotto con questo nuovo ciclo di opere vuole far sì che l’essere umano abbia la possibilità di recuperare, a cominciare da se stesso, questa genuinità oramai svanita e si possa così riequilibrare. E per far ciò l’artista si è incamminato in una sorta di “ricerca del tempo perduto” umano, sostanziata da una rigorosa analisi filologica ed etnografica. Ma questo tuffo nel passato non si è focalizzato sull’età classica (ovvero greca o romana) della quale noi occidentali siamo intrisi, bensì su un periodo molto più antico e precedente anche all’arrivo degli indoeuropei: quello preistorico. Questo perché in tale tempo primitivo, l’uomo, sebbene non esistesse né la scrittura, così come noi moderni la intendiamo, né la tecnologia attuale e dominasse il tribalismo, viveva in una struttura sociale matriarcale, pacifica ed egualitaria (come suggerisce Marija Gimbutas),  creando una simbiosi con la  natura, tanto da stabilire con essa un rapporto quasi sacrale, testimoniato dalle vergini nere o le dee madri. Stradiotto è dunque proteso a far emergere questo “fluire”, come lo definisce, antico che collega l’essere umano alla natura, e alla convivenza, trasformandolo in paradigma dall’intento educativo volto a far comprendere all’uomo contemporaneo ciò che non ha più. L’artista, per rappresentare visivamente sulla tela questi suoi intenti ideologici, si serve, come si evince guardando le sue opere “Dea madre” (auspicio all’armonia tra uomo e donna), “Divinità sarde” (manifestazione di matriarcalità) e “Guerriero nell’agorà” (conferma dell’avvenuto passaggio al patriarcalismo), di una sua personale reinterpretazione di sculture, immagini e segni già esistenti e che per altro da sempre appartengono al nostro subconscio. Ma non solo. Interviene sulle forme antropomorfe in altri due modi: nel primo, le tratteggia con la tecnica divisionista (usando pigmenti vicini a quelli antichi come le ocre per i soggetti o gli azzurri per sacralizzare il cielo), così da amplificare il crepitare luminoso dei colori; nel secondo, le ammanta di spazialismo, collocandole, salvo quando si serve della prospettiva, in uno spazio non concreto per trasformarle in un’unità contenuta all’interno del cosmo. Così facendo aumenta maggiormente la cifra simbolica dei soggetti, rendendoli ancora più misteriosi e perciò maggiormente affascinati all’occhio dell’osservatore, il quale non può che rimanerne attratto e dunque tentare di comprenderli.  

Pierluigi Campione

Caro Pierluigi
Mi ritrovo nuovamente con piacere, a distanza di anni, a scrivere in merito alle tue foto. Certo è passata quasi una decade dalle ultime parole, ma, sebbene esse argomentavano i lavori da te creati in quel periodo, le trovo ancora oggi essenziali per, parafrasando Ivano Fossati, “riavvolgere il tempo” e poter costruire un ideale ponte tra i vecchi lavori e quelli recenti, presenti nella tua mostra personale presso la galleria L.Sturzo di Mestre, ed approfondire  così alcuni aspetti della tua filosofia artistica. Perciò per ampliarne la mia contribuzione argomentativa attuale, è necessario riportare il vecchio scritto:
“Oggigiorno il panorama culturale che si presenta agli occhi dei fruitori è talmente svariato e rutilante che talvolta diventa evento artistico anche la banalità. La ricerca vera del fare artistico comporta studio, preparazione e pazienza e Pierluigi Campione durante tutta la sua carriera  ha dato prova di possedere queste tre qualità. Infatti, andando aldilà di un semplice sguardo, ci si può rendere conto di come ogni sua opera fotografica sia il risultato di un’attenta riflessione dove nulla è improvvisato.
Tra le varie tematiche che egli ha trattato, spicca quella della compenetrazione tra l’arte della fotografia e l’arte della danza. Quest’ultima già in passato è stata raffigurata attraverso la scultura producendo esiti felici, ma i lavori di Campione sembrano offrire nuove prospettive. Con il suo cavalletto e la sua macchina, fermo e immobile, ha narrato e descritto i movimenti aggraziati, ora lenti ora veloci, e le articolate armoniche coreografie che il corpo sa produrre se ispirato dal ritmo della musica. Ma non basta, si è spinto oltre. Sfidando le contingenze fisiche del palcoscenico, quali ad esempio la quantità di luce ed il suo posizionamento, è riuscito ad imprimere alla foto un magico dinamismo, allontanandosi da una visione fissa e stereotipata dell’immagine statica. In tal modo l’atto artistico del danzare si è trasformato in una sorta di scultura nella quale la plastica, tutta intrisa di velocità, le sciabolate di colore, le movenze e le pose ci rimandano con la memoria sia alle opere futuriste sia a gestualità proprie del teatro classico. Il balletto dunque inteso come esecuzione artistica, con Campione travalica i suoi limiti per divenire altra arte: non solo scultura, ma anche pittura. Osservando l’impianto coloristico e/o chiaroscurale che le immagini fotografiche mostrano, si possono intravedere rimandi sia figurativi sia astratti, fusi assieme magistralmente.
E’ chiaro che la danza nell’opera di Campione non è solo soggetto ma anche pretesto sensibile che egli usa per esprimere momentanee emozioni tramite libertà del movimento. Essa dunque, accostata e fusa con altre dimensioni culturali, grazie all’ausilio dell’arte fotografica, diviene un unicum dove musica, gesti, colori e luci si tramutano in un’inesauribile fonte per le sue  ricerche  intellettuali ed artistiche”.
Dal confronto tra queste parole e l’osservazione delle nuove opere, ci si accorge come le parole “danza” e “movimento” siano i cardini su cui si basa la tua creatività, ma anche come le modalità di espressione che esse rappresentano, sul piano artistico sono state da te evolute in modo variegato. Perciò, chiarendo ed approfondendo ulteriormente i contemporanei significati di danza e movimento è possibile capire e contestualizzare questa odierna esposizione mestrina nella quale, ad osservarla bene, si può ravvisare una strana e casuale dicotomia espressiva e passionale, in quanto le foto proposte sembrano la trasposizione visiva del testo della canzone “Voglio vederti danzare” di Franco Battiato.
Tralasciando il dato tecnico, del quale mi sembra superfluo trattare, viste le tue capacità ed i livelli raggiunti, vorrei sottolineare le ragioni profonde della tua scelta della danza come unico soggetto artistico. Il tutto parte dal connubio tra la tua grande passione per la gestualità nel teatro, che tu hai praticato da giovane, ed la disciplinata cadenza esecutiva della musica, che tu senti profondamente. E per cercare di cogliere con la tua macchina fotografica tale corrispondenza tra i gesti del corpo e le note, ti sei immerso nel teatro per ore ed ore, seguendo prove e prime di spettacoli di balletto, concentrandoti all’occasione anche solo su un’unica ballerina, nel tentativo, tra le innumerevoli foto scattate, di individuare tra le movenze quelle tanto significative da attirare il tuo interesse. Ma non è tutto. Oltre a voler raffigurare questo tuo lato interiore, o per meglio dire  sentimentale, nei confronti della danza, nelle tue pose hai magistralmente fatto emergere anche il lato tecnico-artistico, addensando le immagini di un forte valore estetico, incentrato sull’armonia della composizione, il calibrato bilanciamento della figura e la sua giusta proporzione e il soppesato rapporto tra soggetto e sfondo. Hai posto attenzione scrupolosa anche agli effetti della luce e dei suoi riflessi sul palco, sui corpi e persino sui vestiti e le capigliature dalle danzatrici.
Nell’argomentare, poi, sul tuo concetto di movimento, che si sostanzia su un rapporto di variazione di posizione e velocità tra te ed il soggetto, è doveroso sottolineare come esso all’interno del tuo lavoro manifesti due aspetti: da una parte, quello di essere elemento fondante di una costante e mutevole triade composta, oltre che dal movimento stesso, anche dall’importanza della luce e degli effetti della tridimensionalità scultorea che i soggetti presentano; dall’altra, si sottolinea quanto il concetto di movimento si sia evoluto, rivoluzionando il tuo modo di fare arte. Quest’ultimo aspetto evolutivo del movimento, fa sì che esso assuma, sul piano intenzionale, una  funzione antologica e, soprattutto, fornisca una scansione cronologica alla mostra, nella quale sono perciò identificabili tre fasi. La prima, definibile realistica, si realizza nell’istante in cui tu, da fermo, fotografi la ballerina mentre si sta muovendo, restituendo un immagine statica nella quale forma e colore sono ancora identificabili. La seconda, identificabile come futurista, si genera nel momento in cui tu rimani ancora fermo ma diminuisci i tempi fotografici delle pose, in modo che la forma ed i colori della ballerina in movimento si frantumano in tanti velocizzati e sovrapposti fotogrammi dal piglio boccioniano. La terza, inquadrabile nell’astrattismo, si attua quando anche tu stesso sei in movimento, talvolta seguendo la ballerina o talvolta andando nella direzione opposta, cercando di bloccare il tempo nel momento di tangenza tra te e lei, producendo così un’immagine di sola campitura di cangiante colore dai tratti quasi tonali in cui ogni forma figurativa è oramai scomparsa.

Concludendo, visti questi tuoi felici esiti contemporanei, spero vivamente di ritrovarmi a scrivere di tue ulteriori e mirabolanti evoluzioni nel campo della fotografia, magari esulanti dalla danza  e dirette verso altri soggetti.

Pecorelli - Madre-Vergine

Fin dalla sua comparsa, l’uomo ha cercato di capire e rappresentare le grandi tematiche sensibili che lo hanno visto coinvolto nel corso del tempo, riuscendo a dare loro una interpretazione grazie alla sacralizzazione o all’archetipizzazione di esse. Una tra le più importanti questioni affrontate dall’uomo primitivo è la capacità della donna di essere madre del genere umano e dispensatrice di bontà e di amorevolezza. Infatti fra le più conosciute testimonianze che le civiltà preistoriche ci hanno tramandato, spiccano le piccole sculture denominate Dee Madri. Realizzate in pietra con mezzi espressivi rudimentali, esse si caratterizzano per i tratti antropomorfi, la sagoma chiusa e compatta, la zona pubica particolarmente evidente e, molte volte, l’intero corpo inscritto in un ellisse. Il culto delle Dee Madri si è poi tramandato, sotto forme e rappresentazioni più o meno variabili, a tutte le civiltà apparse successivamente, comprese quella greca, egizia e romana travalicando i secoli e mantenendo sostanzialmente sempre lo stesso significato. Tanto che, anche nell’era moderna e contemporanea, pur su piani culturali diversi, l’uomo si è cimentato in tale misteriosa simbologia, nel tentativo atavico di comprenderla: ne sono esempi, solo per citarne alcuni, Mozart in musica, Jung e Neumann in psicologia, Modigliani in arte e Pasolini in scrittura. Anche Carlo Pecorelli ha voluto mettersi alla prova su questo archetipo così affascinante, privilegiando all’interno della sua ricerca le dimensioni sentimentali umane dell’affettuosità, della comprensione e della protezione materna che il concetto di dea-madre rievoca, rivisitando tali idee attraverso il suo simbolismo scultoreo. Egli ha dato vita ad un circuito espositivo chiamato “La linea dell’acciaio” nel quale sia possibile, grazie al mezzo espressivo della materia, concretizzare le sue riflessioni sull’idea di Madre. Per far ciò, ha piegato il suo rugginoso acciaio corten alla sua personale modalità espressiva, incentrata sul linearismo, e ha dato così vita a forme sensibili, capaci di emanare contemporaneamente significati sia ideali-concettuali, sia visivi. La sua curva si è arrotondata nel cerchio, da lui inteso come una emblematica figura geometrica ispirante non solo equilibrio, centralità e ciclicità eterna, ma anche, al contempo, metafora di abbraccio materno. Percorrendo le tappe di questo tragitto incentrato sul rapporto analogico forma-concetto, ideato da Pecorelli, e scrutando attentamente le opere dai sinuosi profili, si potranno cogliere le sottili evocatività che esse nascondono facendo emergere la primordiale ancestralità di ogni essere umano.

Carlo Pecorelli

Prosegue la rassegna di mostre imperniate sul tema “Nuova arte per nuove identità” organizzate dall’Associazione I.R.I.S. per l’anno 2011. In questa seconda tappa del percorso è il maestro Carlo Pecorelli a cimentarsi sul soggetto proposto, con la mostra dal titolo “Attraverso lo specchio”. Egli individua, con occhio attento e realista, come l’incapacità di comunicare tra le persone, la mancanza di accettazione e l’irrispettosità nei confronti dell’altro, la perdita di valori morali quali l’onestà, la serietà e l’impegno siano le cause della deflagrazione dell’identità contemporanea. Per ristabilire tali virtù e far sì che l’uomo possa ricostituire un dialogo sensato con se stesso e con gli altri, Pecorelli afferma la necessarietà di ispirarsi al passato, in particolar modo al Rinascimento. Questa infatti è un’epoca, afferma l’artista, nella quale l’uomo, uscito dal buio del medioevo, si pone al centro del mondo e, consapevole del proprio libero pensiero, della propria potenza e dei propri mezzi, inaugura un periodo di straordinaria fioritura morale, culturale, artistica e letteraria tesa a favorire la liberalità, la concordia e la solidarietà tra tutti gli esseri umani. Le opere dell’artista sono intrise della sua volontà di offrire una riflessione su questi ideali rinascimentali, che, sebbene lontani nel tempo, possono ancora intendersi come concreta possibilità di redenzione per la nostra contemporaneità. I suoi lavori perciò sono il frutto di un’accurata e sapiente fusione tra la sua personale convinzione filosofica e una sottile simbologia da comprendere attentamente, la quale si struttura secondo determinati passaggi sia esecutivi, sia di interpretazione. Tale modalità creativa verte, come primo momento, sulla selezione oculata di riproduzioni di opere pittoriche di maestri del quattro-cinquecento, i cui soggetti sono santi, Madonne in trono o Cristo, che per Pecorelli non rappresentano solo scene curiali ma incarnano simbolicamente in modo pregno gli ideali di rinascita morale, tanto da travalicare la dimensione religiosa e divenire una “sacra” epigonizzazione dell’uomo stesso. Successivamente, egli colloca in modo giustapposto tali immagini, talvolta elaborate da lui stesso, in una architettura d’ispirazione metafisica tratteggiata da linee. Queste danno perciò origine ad uno spazio tridimensionale ideale nel quale si crea un luogo che va oltre il dato reale per divenire dimensione della mente, inducendo così il fruitore all’osservazione dell’immagine, vero fulcro del dipinto. Accanto all'iconografia rinascimentale, il pittore delimita, sempre tramite l’utilizzo di linee, metaforiche porte che hanno il compito di favorire il passaggio tra il passato virtuoso, rappresentato dalle immagini, e il nostro presente precario, identificato con le strutture geometriche. A chiusura del cerchio dell’opera così composta, perviene la stesura del colore impostato su un contrastante monocromatismo, che a volte appare screziato come a rappresentare metaforicamente lo sgretolamento dei valori veri dell’uomo contemporaneo. Talvolta l’opera è arricchita da una piccola mascherina dipinta, dalla duplice funzione: da un lato, impersonifica idealmente lo stato d’animo dell’artista, il quale, da una posizione privilegiata, è partecipe del simbolismo del dipinto, dall’altro, essa favorisce e accentua il traslato scambio tra opera e fruitore. Nasce così una composizione impostata su un estremo equilibrio compositivo e su un calibrato bilanciamento delle parti, che, come negli artisti del Rinascimento, non è solo concreto ed oggettivo, ma, soprattutto, mentale e spirituale, permettendo all’uomo di ristabilire quel dialogo antico e vero con la natura, con le virtù e con i suoi simili. Allo stesso modo, su tali bilanciamenti sono impostate le sue sculture in acciaio corten o microsfere di vetro, le quali si originano dal vagare della linea curva che spesso si arrotonda nella sfera, forma d’equilibrio per eccellenza. Tali linee danno vita a profili astratti, sinuosi e liberi dalla greve plasticità per librarsi libere nell’aria come lo spirito dell’artista.