lunedì 1 febbraio 2016

Vagiti Ultimi 8 - Cadimi Addosso


L'efficacia di un evento culturale molte volte la si può carpire anche dalla ponderazione che esprimono il suo titolo ed il suo tema. Affermo questo perché pianificare e progettare, come in questo caso, manifestazioni artistiche, non è cosa facile: servono qualità come costanza e serio studio da parte degli organizzatori per evitare di cadere nella banalità o in mediocri revival, nonché la non scontata capacità di individuare artisti in grado di affrontare le tematiche che sorreggono tali mostre. E credo che la rassegna “Vagiti Ultimi”, per il fatto di essere giunta alla sua IV edizione, dimostrando un proficuo lavoro per veicolare l'arte, abbia dimostrato di possedere le sopracitate positive caratteristiche.

            Anche il nome dell'associazione, corrispondente a quello della rassegna, dimostra la voglia d'impegnarsi, di fare cultura nonché un pizzico di fascinosa creatività. Infatti le parole contenute nella locuzione nominale “Vagiti ultimi” formano un ossimoro che esprime, sì, concetti contrari accostati tra loro, ma dalle intriganti interpretazioni foriere di intenzionalità artistiche. Ciò accade perché la figura retorica contenuta nel titolo acquista una particolarità dovuta alla valenza e al posizionamento dell'attributo rispetto al sostantivo. L'aggettivo “ultimo”, infatti, usato per individuare una conclusione di un evento o di un atto, spesso con sfumature negative, talvolta catastrofiche o senza ritorno, come ad esempio, ne “Gli ultimi giorni dell'umanità” di Karl Kraus, in cui l'aggettivo enuncia l'approssimarsi dell'apocalisse sul mondo, nel caso specifico di tale titolo assume un significato sottilmente diverso e addirittura quasi contrario. Essendo la sua collocazione posta dopo il sostantivo“vagiti”, che sul piano letterale indica i primi lamenti dei neonati, simboleggiando dei nuovi principi nell'arte, l'ideale e generale valenza negativa che esso indica si stempera e si trasforma, facendo sì che quest'ultimo assuma un significato letterale e restrittivo in grado di diminuisce la valenza paradossale dell'ossimoro perché lascia intuire che non si tratti degli ultimi risultati finali dopo una lunga serie, bensì degli esiti ultimi, nel senso di appena generati o più recenti in ordine di tempo, che si affacciano nel mondo dell'arte. Infatti tale nome in questa mostra assume un forte valore retorico: come i vagiti reali sono i tangibili segni della vita che inizia e principia, così quelli metaforici indicano la nascita di una nuova opera d'arte che per la prima volta si mostra al mondo.

            Dunque il recondito gioco di parole racchiuso nell'ossimoro può essere tradotto come la volontà, da parte dell'associazione, di mostrare al pubblico le più attuali esternazioni della creatività, ma non in modo casuale, bensì coinvolgendo gli artisti attorno ad un tema intrigante ed apportatore di interessanti prove, come testimonia il titolo stesso della mostra “8 Cadimi addosso”. Quest'ultimo vede l'unione di un numero e di una locuzione che nasconde metaforicamente il vero senso della mostra che gli artisti sono chiamati ad interpretare: il bisogno di equilibrio. Certo, ci sono svariati settori del sapere umano che definiscono l'equilibrio, come la fisica o la chimica, ma credo che in merito alla specificità della mostra, e con particolare riferimento al numero otto ritenuto simbolo dell'armonia universale, esso sia da ritenersi come uno stato in cui ogni cosa è al giusto posto, partendo dalla natura per giungere all'uomo. E' chiaro che questo ha innata in sé la necessità di mantenere saldo il suo baricentro sia interiore che esteriore, ma quando si lascia traviare dalle futili contingenze, perde l'armonia e si incammina verso l'autodistruzione. L'arte pertanto, grazie al suo potere educativo, alla sua evocatività ed alla sua capacità di stimolare pensieri e dialoghi, riveste un ruolo sostanziale per evitare questi sbandamenti da parte dell'uomo.

            E per capire come gli artisti che presenziano a questa mostra manifestino, in base alle loro caratteristiche, una particolare attenzione al concetto di equilibrio, basta osservare le loro produzioni/realizzazioni, a prescindere dal fatto che siano state realizzate con modalità e mezzi appartenenti alla tradizione o alla sperimentazione. Infatti in tutti i lavori si evince subito che il significato che ne emerge è pregno di senso intellettuale mentre il significante non ha nessuna rottura o disarmonia percettiva e sensoriale fra le parti che lo compongono.

            Anche sul piano della ricerca ideale, ogni artista offre un panorama espositivo che lo colloca dentro le tre sostanziali categorie che da sempre, sebbene generino apparenti contrapposizioni, armonizzano il mondo dell'arte, anche già in un semplice rapporto di comparatività. Tali categorie sono: la prima intimista, volta a concentrare l'attenzione sulla dimensione soggettiva o interiore e sugli aspetti, spesso quotidiani, dell'esistenza; la seconda sperimentalista, protesa a provare, verificare e fondere nuove concettualità ed espressività rendendole funzionali e valide; la terza sociale o sociologica, intenta ad indagare le interrelazioni e le organizzazioni della società in cui viviamo nonché il rapporto tra essa e l'individuo e svelarne cause, effetti, pregi e difetti. A conferma di quanto enunciato, basta confrontare i percorsi intellettuali di molti artisti, come, ad esempio, Franco Costalonga, Oddino Guarnieri e Santorossi (l'elenco potrebbe proseguire), i quali pur avendo dialettiche diverse, manifestano serie e robuste consapevolezze artistiche. E' però doveroso ricordare che tali tipizzazioni non sono rigide e chiuse, ma anzi l'una non può esistere senza le altre e tutte fra di loro si possono intersecare, sovrapporre ed aggregare. Queste peculiarità sono riscontrabili pure nei partecipanti alla IV edizione di Vagiti Ultimi perché, secondo le volontà e le necessità interiori o pratiche, essi decidono di far prevalere l'una sull'altra oppure, se indispensabile, le fondono in un costrutto amalgama.

            Restringendo ancora il campo, potremmo affermare che questi artisti, nella piena e saggia libertà dell'arte, sciolta da futili discorsi come la contrapposizione tra passato e moderno, grazie alla loro indispensabile onestà intellettuale, al serio impegno ed alla modalità/strumentalità creativa, vicina alla sperimentazione intellettuale (intesa come pensiero) o alla riflessione intellettuale a sua volta declinata in soggettiva-interiore e oggettiva-esteriore, hanno un'occasione per mostrare ai visitatori le loro valenti opere senza cadere in stucchevoli provocazioni o reiterati passatismi.

            L'artista che inaugura la corrente sperimentalista, protesa a trovare nuove espressività in cui anche la scienza diviene mezzo e non fine per veicolare messaggi è il politecnico Marco Ulivieri, il quale vede l'arte come possibilità per ricreare e cimentarsi con l'inconsueto e la novità. E per attuare questi suoi intenti egli si serve di una personale concettualità programmata, costituita da atti creativi, e di una intenzionalità tecnico-esecutiva salda, quasi scientifica (basti pensare che crea i suoi lavori tramite le oscillazioni di un pendolo che deposita quarzite sul supporto) dalla quale trapelano rimandi allo spazialismo e all’Optical Art. Il soggetto di questo artista è dunque una forma/struttura che si palesa attraverso rappresentazioni di linee, curve, spirali, cerchi e moduli le quali si accostano, si compenetrano o si fondono tra di loro secondo un ritmo codificato in cui tutto è condotto con coerenza, bilanciamento tra le parti, attenzione agli equilibri ed alle assonanze visive. Egli riesce perciò a creare nelle sue opere rapporti perfetti impostati sulla percezione tangibile di uno spazio algido ed astratto e sul senso del tempo che scorre circolarmente, tendendo in tal modo a far cogitare il fruitore sui concetti universali. Come l'artista precedente anche il poliedrico gruppo Star Node interpreta la genialità come possibilità per ricreare e sperimentare. Il collettivo artistico si allontana dall'idea di soggetto rappresentato, inteso come contenuto riconoscibile e sedimentato, per concentrarsi sulla realizzazione di un “prodotto” creativo nel quale emerge la valenza tematica gestuale dell'atto/momento artistico. In tal modo reinterpreta sia la mimesi visiva (intesa come svelazione) che il concetto di supporto, non più inteso come dispositivo o elemento avente lo scopo di sostenerne altri, fissandone nello stesso tempo rigidamente la posizione. L'opera d'arte si trasforma conseguentemente in una sapiente orchestrazione eseguita dall'insieme di artisti, composta da una costrutta sintesi tra svariati settori del sapere umano, quali la scienza e la tecnologia, ed espressività artistiche, come la musica, il tutto racchiuso da una azione performante complessiva che coinvolge sul piano esecutivo non solo i creatori, ma, spesso, anche il pubblico. Un accordo armonizzato, che, avvalendosi sul piano esecutivo delle potenzialità offerte della contemporaneità, come ad esempio mezzi e strumenti tecnologici dalle enormi potenzialità come il computer, tramite la percezione sensoriale mira a sollecitare la sfera emozionale e recondita di chi osserva e/o partecipa alla performance da lui  concepite.

            Alla sezione intimista, nella quale l'artista usa la propria sensibilità per indagare o soggettualizzare l'interiorità propria o dell'umanità tutta, evidenziandone peculiarità e incongruenze, aderisce il gruppo più numeroso dei partecipanti all'esposizione.

            Il primo, in ordine alfabetico, ad inserirsi in questa propensione ideale declinandola poi in ricerca, e decodificandola in dialogo creativo è Valerio Anceschi. Infatti per lui il creatore ha un compito ben preciso: così come l'arte certifica il mutamento umano, allo stesso modo l'artista muove ed origina forme in divenire, sospinto da un anelito inconscio. Si genera pertanto una similitudine che fa emergere  una relazione intrinseca tra l'Io recondito di Anceschi e la vita che nel suo scorrere dissemina indizi sensibili. Le flessuosità, le curve, le spirali, le iperboli ed i grovigli generati dai suoi metalli che, esili e leggeri fluttuano e vibrano armoniosi nello spazio con le loro evoluzioni, testimoniano come l'artista attribuisca al concetto di movimento una duplice funzione: la prima, soddisfare i suoi desideri di artefice; la seconda, far sì che esso divenga simbolo pregno di evoluzione biografica che colpisce chi guarda le sue opere. Lo spettatore allora sarà in tal modo portato a riflettere non solo sull'oggettività dell'opera, ma anche sul senso vitale che questa racchiude. Anche Sebastian Bieniek cerca di dare ordine all'intima spiritualità dell'essere umano, di liberarlo dalle contraddizioni e dai paradossi che lo assillano in quest'epoca contemporanea. Però invece di usare grandi costrutti nei quali, spesso, si è traviati da esagerate complessità, che rendono poco evidente il messaggio, l'artista si serve della semplicità: egli usa una grammatica visiva comune e chiara che sembra fatta per un mondo infantile, ma in realtà è finalizzata a rendere l'immagine comprensibile. Questa semplicità quasi giocosa, basata sulle piccole cose, è tuttavia apparente, perché sul piano elaborativo è frutto di un'attenta progettazione, tesa comunque a far interagire riflessivamente le persone. Le sue foto ci mostrano ritratti surreali di artificiosi doppi volti (osserviamo ad esempio gli occhi: uno è reale in quanto appartiene alla persona ritratta mentre l'altro è simbolico perché disegnato sulla faccia di essa) che ci interrogano paradossalmente sia su concetti negativi, quali la doppiezza, l'incoerenza, l'instabilità interiore dell'uomo, sia sulla necessità di ricostruire  dialogo (nel senso etimologico del termine) tra le due facce: quella dipinta metaforica e quella reale esteriore. Solo ripulendo la sua anima, l'uomo sarà in grado di dare armonia alla propria  coscienza.

            Parimenti la poliedrica e sperimentalista Lia Cavo, con le sue sculture ed installazioni ambientali, si muove all'interno di istanze collettive, indagando l'oggettività che la circonda, concentrandosi sulle tematiche sensibili dell'uomo e cercando di dargli non delle risposte inappellabili ma delle sollecitazioni che facilitino la sua analisi interiore. L'artista realizza opere costituite da elementi antropomorfi, nelle quali i surrogati del corpo umano, i prodotti della società ed il mondo animale o vegetale si compenetrano creando un unicum, capace di dilatarsi nello spazio a seconda delle dimensioni e dotato di forti valenze simboliche, in quanto assolute, anzi soprattutto allegoriche. Infatti queste ultime infondono ai lavori un significato più profondo, nascosto e connotativo in grado di sollecitare il dato riflessivo. Dunque, Lia Cavo vuole sollecitare non tanto il raziocinio quanto l'introspettività dell'osservatore che si relaziona alle sue ammalianti opere, evocando in lui sentimenti, desideri e senso d'identità.

            Sempre in tale categoria ma con diversa sfumatura, si notano le riminiscenze alla statuaria antica presenti nelle sculture di Alba Gonzales, che inducono l'uomo contemporaneo a meditare su come ancora oggi il gusto per il classicismo, quando diviene mezzo espressivo ideale e pratico, necessario per palesare e concretizzare le aspirazioni intellettuali degli artisti nonché veicolare messaggi che penetrano in profondità nell'animo, sia ancora attuale e non  si riduca solamente a muta e stantia reiterazione. Infatti l'intrigante fusione tra le matrici arcaiche  e mitologiche, da una parte, e modalità espressive realistiche, simboliche ed a tratti surreali, dall'altra, di cui le opere della scultrice sono intrise, le scioglie dal solo dato estetico per trasformarle in rappresentazioni di latenti valenze dai rimandi interiori e psicologici (non psicoanalitici) capaci, però, di penetrare nell'inconscio del fruitore e di indurlo ad indagare su se stesso e sulla sua esistenza. In tal modo, Alba Gonzales induce colui che ammira le sue statue a  compiere un atto di consapevolezza, o meglio di pensiero, e tentare di comprendere i propri enigmi fatti da paure, angosce e desideri per cercare di liberarsi ed intravedere una possibilità di miglioramento. Anche la scultrice Luisa Elia indaga le recondite sfaccettature dell'anima attraverso la materia. Quest'ultima è stata trasformata dall'artista, per decodificare le sue istanze ideali, in metafora: così come la vita in base alle sue vicissitudini si mostra mutevole, allo stesso modo la materia, grazie alla sua variabile malleabilità, può esprimere le alterne vicende dell'uomo. E' chiaro che l'artista si allontana dal realismo figurale per addentrarsi in un nuovo ambito in cui prevale la mutazione della struttura che sostanzia il messaggio, il quale vira verso una simbolizzazione delle opere, facendo emergere, da un lato, la consistente e variegata modellazione sulla plastica, talvolta vicina alla modularità, e, dall'altro, una nuova definizione del rapporto materia-forma. Questa assume perciò connotazioni archetipiche, da intendersi come idee innate e predeterminate dell'inconscio perché provenienti dalla mitologia primitiva, ed ancestrali, in quanto espresse istintivamente dall'uomo sin dai suoi primordi. In tal modo l'artista dà vita ad una sorta di “scultura viva” che ha il compito di colpire la psiche più recondita dello spettatore inducendolo a pregne, lontane ed ataviche riminiscenze che lo invogliano ad interrogarsi sul suo Io passato, presente e futuro. Chiude il gruppo di questi artisti che scrutano lo spirito umano ed i suoi risvolti, il pittore Lillo Messina. Egli però, a differenza degli altri, non disamina le relazioni tra il dato interiore e quello esteriore, ma dà vita ad un mondo di evasione, nel quale l'uomo può estraniarsi dalla realtà, spesso costellata da drammi e crasi, per rifugiarsi in un trasognato luogo-spazio che gli permette di ritrovare la catarsi, rifocillare la sua anima e recuperare nuovo vigore per affrontare le burrasche della vita. Le sue forme astratte, dai tratti curvilinei ed impostate su colori plastici e squillanti, si trasformano in una sorta di isole atlantidee sospese, e al contempo immerse, in infiniti sfondi composti da onirici cieli e/o mari dal consistente substrato narrativo. Tutto invita a travalicare la realtà per compiere un periplo interiore, nel quale i dipinti stessi divengono suggestive tappe. Una sorta di rifugio quindi, permeato da luci e colori mediterranei, dalle atmosfere trasognate e surreali intriso, da un lato, di echi e riminiscenze biografiche, che costituiscono il substrato, e, dall'altro, di fantasia che emana una gioiosa felicità in grado di far svagare colui che contempla i quadri infondendogli, allo stesso tempo, stupore, digressioni e fascinazioni fiabesche.

            Alla partizione di ispirazione sociologica, in cui gli artisti usano la loro creatività per tentare di decodificare i cambiamenti della modernità collettiva, aderisce il versatile Luciano Luporetti, il quale, con protesa ed intensa azione intellettuale, vuole rappresentare il mondo contemporaneo in tutti i suoi aspetti, paradossali o meno, avvalendosi di una espressività impostata su un sapiente amalgama composto da tratti figurativi, simbolici, intesi come apertura di senso, surreali e, talvolta, favolistici. Egli infonde alle sue opere una narratività tale che esse divengono intreccio di vicende in cui i soggetti sono l'uomo e la  vita. Da ciò si deduce che l'artista vede l'arte come mezzo educativo per svelare, tramite le metafore dai rimandi letterari-favolistici-fiabeschi, le verità nascoste e le incongruenze umane e sociali. Ma non solo. Luporetti vuole far meditare l'osservatore sulla propria condizione interiore e sul suo rapporto con il mondo in qualità di individuo collocato all'interno di una comunità, offrendogli degli spunti di riflessione (basti pensare all'ampia gamma di riferimenti che partono dal mito antico e giungono alla mercificazione e massificazione attuale) fuori dal tempo e dallo spazio in grado di allontanarlo dal pensiero comune artefatto ed apparente, per fargli cogliere e comprendere le verità nascoste e, allo stesso tempo, reali.

            Concludendo, è doveroso ricordare che la rassegna è nobilitata da un contesto ricco di storia, arte e cultura come quello della città di Atri, splendido gioiello abruzzese incastonato su una collina dalle atmosfere antiche, che si presenta al pubblico snodandosi nei suggestivi ambienti delle Scuderie del massiccio Palazzo Ducale (edificio del tardo Trecento sorto su resti romani). I locali in cui si svolge l'esposizione sono un susseguirsi di stanze sotterranee costruite con solide roccie e dai soffitti culminanti in volte, scelte dall'associazione perché luogo storico ed evocativo ideale per accogliere il percorso intellettuale della mostra ed unire così, in un insieme sinergico, l'antico passato della città con i “vagiti ultimi” della sua cultura cosmopolita contemporanea.