lunedì 6 giugno 2016

Jnte Jag

“Irriverente...dissacrante...le sue opere mi turbano!” Queste potrebbero essere le parole che un  osservatore pronuncerebbe osservando una foto di Inte Jag. Ed anch'io non ho difficoltà a condividerle... anzi ne aggiungerei altre più scioccanti! Così facendo, sicuramente, avrei contribuito a “fare il suo gioco”. Affermo questo perché Inte Jag è un artista che, anche contro le apparenze, vuole bene all'uomo contemporaneo e nutre verso di esso una vera e propria filantropia (da intendersi nel senso vero del termine) perché cerca di fargli comprendere i paradossi, le imperanti contraddizioni e le mistificazioni megafoniche del tempo in cui egli vive. Ma per far ciò, l'artista  non ha scelto la via facile della sola testimonianza rappresentata, spesso edulcorata, senza esporsi troppo, bensì ha deciso di percorre l'irta salita della raffigurazione del lato crudo della realtà e della vita, anche a costo di creare rigetto, allontanamento e diniego da parte del pubblico.
L'intento dell'artista è usare la creatività come grimaldello per smuovere le menti e gli animi delle persone: avvalendosi, appunto, di una modalità irriverente, quasi aggressiva, nonché scandalosa le costringe a svegliarsi dal torpore in cui sono immerse per poi indurle alla riflessione, ad una presa di coscienza sulla deriva del mondo, in modo da maturare in esse il senso della necessità di porvi rimedio. Da tali intenzionalità, si comprende come Inte Jag sia un intellettuale impegnato che crede in un'arte dalla funzione sociale, perché intesa quale mezzo per cambiare il mondo, e dalle finalità educative, in quanto atta prima a scuotere l'osservatore per poi indurlo a pensare con la propria testa. Anche l'adozione dello pseudonimo, traducibile dallo svedese come “Non sono io”, dimostra come per egli sia sostanziale evidenziare le doppiezze, le schizofrenie, spesso mascherate da perbenismo, che pervadono la contemporaneità, sottolineando in tal modo quanto mai siano attuali le tematiche già evidenziate da L. Pirandello inerenti la crisi dell'Io. Oltre all'evocatività misteriosa racchiusa nelle parole del suo nome d'arte, si comprende come l'artista sia coinvolto in prima persona sia nel dipanare le brutture della vita, sia, soprattutto, nel combatterle coraggiosamente sfidando tutte le convenzioni.
Le armi scelte da Inte Jag per concretizzare queste azioni destabilizzanti contro la compassata futilità, sono la metafora e l'ironia. Con la prima, egli trasferisce il significato da un'immagine all'altra caricandola di espressività, mentre con la seconda, amplia questo contenuto sino ad arrivare alla manifestazione del suo contrario. L'artista, infine, per aumentare il senso di denuncia nonché la dissacrazione dei falsi miti, infonde alle sue opere anche rimandi o elementi comici, risibili e sarcastici a costo di divenire, fintamente, sacrilego e blasfemo.
Il fotografo mette così in discussione la falsità, i bigottismi, le scintillanti luci della mondanità ed i tabù idioti iconizzando quella “società fluida”, descritta dalle tesi del sociologo Z. Bahuman, oramai vuota perché priva della propria essenza, mancante di valori positivi e traboccante di ipocrisia. Ecco perché, nei suoi lavori, la natura, l'uomo, gli oggetti e gli animali  divengono soggetti di un “girotondo di anime perse” che danno vita a pose assurde, paradossali teatrini ed accostamenti apparentemente demenziali in cui anche il più piccolo particolare grida al pubblico le folli sclerotizzazioni del mondo d'oggi.
E' doveroso sottolineare che, sebbene le opere possano apparire esagerate, esse non rasentano mai la volgarità gratuita: infatti l'artista non cade nel laido e nel banale perché tutto il suo agire è frutto di una attenta e studiata progettualità, come testimonia il ciclo “Ecce homo”, in cui, anche quando le rappresentazioni sembrano mostrare un certo sadismo, non sfociano in inutili provocazioni ma sono da intendersi come narrazioni dei raccapricci dell'oggi. Ed a confermare questa attenzione nell'elaborazione e nella cura presente nei suoi lavori si aggiunge l'atmosfera surreale, spesso quasi da sogno horror e gli accenti simbolici che essi emanano.
Concludendo, credo che Inte Jag, nonostante mostri il lato oscuro dell'uomo, non ne sottolinei mai l'ineluttabilità ed il declino, ma abbia ancora speranza in lui e perciò tenta di offrirgli una via d'uscita la quale, però, appare tanto scioccante quanto sono le aberrazioni di quest'ultimo.

venerdì 1 aprile 2016

Tobia Ravà

Al Maestro Tobia Ravà dedico queste righe nella speranza di esprimere tutta la mia ammirazione ed emozione per il suo lavoro, tanto intenso sul piano artistico quanto complesso sul piano culturale. Tali mie riflessioni, ispirate da un'interessante colloquio precedente, certo non possono essere esaustive ma si possono ritenere come un breve vademecum per comprendere maggiormente il suo operato. 
Per Ravà l'arte è una modalità per esprimere il proprio percorso filosofico, nel quale la creatività è avvertita come mezzo per sondare il sapere. E questo suo viatico, come si può osservare palesemente nelle sue opere, è generato da un amalgama formato, da un lato, dall'analisi della mistica ebraica e, dall'altro, dalla cognizione del sapere occidentale. Questa sua sensibile dicotomia, composta dalla matrice religiosa e culturale ebraica unitamente agli esiti della conoscenza di derivazione greca, che, in realtà, nelle sue opere si coglie in modo più velato perché più nascosta, acquisisce forza, da un lato, dal suo vissuto biografico e, dall'altro, dall'ispirazione che egli trae dallo studio dei grandi uomini del passato che lo affascinano.
Da questo concetto di arte, Ravà declina poi il ruolo dell'artista: egli deve sentire la necessità di rapportarsi al prossimo, cercando di esprimere idee per le quali la sola comunicazione verbale non è sufficiente. E in ciò riesce solo mantenendo legata la quotidianità ordinaria alla propria creatività, perseguendo sempre lo scopo di vivere per generare arte e, viceversa, di generare arte per vivere, anche a costo di sacrificare, se necessario, gli affetti familiari. Dunque questo rapporto vita-arte assume una dimensione globale e totalizzante, tanto da permettere all'artista, tramite la sua intuizione, di trarre spunti dal dato reale e/o naturale che lo circonda, senza però, come facevano i romantici, stabilire una fuorviante simbiosi con esso.
Ed è proprio questa simbiosi vita-arte, unitamente agli input provenienti dal mondo esterno, che ha permesso a Ravà di creare un personale linguaggio visivo atto a concretizzare iconicamente e tangibilmente le sue istanze intellettuali e creative. Esso perciò non è il frutto di mera casualità, ma deriva da un percorso biografico nel quale sono riscontrabili alcune tappe temporali fondamentali. Agli inizi della sua carriera frequenta il mondo della calcografia approfondendone le svariate versatilità ideali ed espressive, tanto che giungerà ad  usare un segno, da lui inteso come “racchiuso in sé” perché elemento inequivocabile, capace di frantumare anche le parti più minute del soggetto. Successivamente egli si approccia allo studio della geometria teorica nella quale intravede la possibilità, quasi per paradosso, di frantumare le forme costituenti i dipinti giungendo  a costruzioni geometriche intrise di echi optical. Sollecitato poi da nuove istanze, modifica anche il  colore passando dalla policromia alla tri/bicromia e sfumando le immagini grazie alla sovrapposizione di campiture per creare effetto prospettico, seguendo una modalità mutuata dalla fotografia. 
Le progressioni e compenetrazioni di queste fasi artistiche, gli permettono si inventare un personale alfabeto. Esso si impernia sulla singola lettera ebraica intesa come una forma costitutiva, una sorta di mattone che, utilizzata secondo una successione, origina delle parole le quali, a loro volta, edificano il dipinto. Ai lessemi Ravà aggiunge progressivamente anche i numeri, prima casuali, poi inseriti in un testo logico, che arricchiscono maggiormente la grafia di significati simbolici. Tale scrittura è la confermata testimonianza del rapporto tra arte-cultura e vita che permea l'artista: infatti essa sblocca una situazione di malessere personale presente in lui, provocando un cambiamento così epocale da inaugurare positive novità. 
Le lettere ed i numeri, che sul piano visivo divengono macchie di colore interpretate, sono stati dunque per Ravà la scintilla per una nuova via e sono il frutto di lenta evoluzione da cui si palesano significative ponderazioni ideali ed intellettuali costantemente intuibili nelle sue opere. Da questi studi emergono rimandi ad una moltitudine di elementi razionali, emozionali o contemplativi, quali: la fisica nucleare, intesa come conoscenza specifica della relatività della natura, partendo dal micro per arrivare al macro cosmo; la matematica, intesa come processo di senso tangibile e non solo quale entità teorica ed astratta; il connubio tra geometria ed ottica, usato come altra modalità sensoriale, tanto che l'artista imposta le sue opere sulla percezione binoculare grazie ad interventi su foto a grandangolo che trasformano l'approccio visivo in una dimensione simbolica, ma pur sempre reale, nella quale si riscontra un valore concettuale. Non mancano poi istanze vicine all'alchimia, usata come una sorta di prescienza che induce all'interpretazione di altro mondo cognitivo, dalle forti valenze simboliche e misteriche. 
Oltre a ciò, va aggiunto che Ravà, all'interno del suo alfabeto, usa il calcolo matematico come fine e concepisce la geometria come mezzo per riscontrare le coincidenze in senso deterministico, ma mai dogmatico, ricavate dall'interpretazione dalla “ghematrià” (“...ovvero il sistema ebraico di permutazione tra parole e numeri impiegato per decrittare il significato celato e mistico dei testi” come afferma M.L. Trevisan). Così facendo, egli riesce ad aumentare l'impatto emotivo delle sue opere determinando nell'osservatore un positivo spiazzamento (condizione necessaria ad un'opera d'arte per crescere e far crescere chi la guarda), mai sgradevole, in grado di attirarlo, affascinandolo. “L'opera d'arte – dice l'artista – deve destare in chi la guarda uno stupore come  l'improbabile sesta riga del pentagramma”.   
  Ma i tentativi di comprendere queste coincidenze celano in Ravà il fulcro sostanziale del suo fare artistico. Essi non vogliono fornire risposte o consolidare certezze, ma marcano da parte dell'artista il desiderio di conoscenza. Queste due parole, nonché i profondi significati che esse nascondono, divengono dunque il soggetto ideale che fa da substrato all'opera di Ravà e lo sono al tal punto che egli vi ha dedicato la vita e piegato la sua creatività per dar loro sostanza ed essenza. Basta solo analizzare etimologicamente i lessemi per comprendere come siano una fonte inesauribile di ispirazione. Infatti egli metaforicamente desidera ardentemente – dal latino, de-sidera che significa letteralmente “mancanza di stelle” ed interpretato come appetire a qualcosa che manca – la conoscenza che ancora non ha raggiunto e si adopera in tutti i modi per carpirla, ovvero farla sua, ma non con astuzia o inganno bensì con ragione, sentimento ed estro. La conoscenza quindi per Ravà diviene il fine ultimo esistenziale. E perciò non gli interessa come essa si possa definire (già in epoca greca questa veniva concepita suddivisa tra prodotto dell'indagine introspettiva, da un lato, e derivazione sensoriale, dall'altro) ma si concentra sul fatto che essa sussiste solo se intuita come percorso di crescita dell'uomo. 
É chiaro che i tentativi di percorrere questo cammino verso la trascendenza, avvicinandosi ad una dimensione globale dalle infinite sfaccettature, si declinano secondo le necessità e le intenzionalità proprie di ogni essere umano, rinnovandosi nel momento stesso in cui quest'ultimo riesce a comprendere il sapere. Infatti la conquista di ogni livello di consapevolezza fa avvertire subito la necessità di protendersi verso un nuovo ed ulteriore stadio di essa, innescando un processo di crescita sapienziale infinito. E tale aspirazione al sapere porta l'artista stesso a scorgere la strada verso il sacro ed il divino, come confermano anche gli studi compiuti da Ravà inerenti la mistica ebraica imperniata sulla cabala, percorso conoscitivo, iniziatico e parallelo capace di influenzare anche il mondo scientifico ed umanistico.   
L'opera  d'arte a prescindere che sia realistica, paesaggistica, simbolica o astratta, nonché bidimensionale o tridimensionale, diviene quindi un punto d'incontro tra il soggetto ideale di Ravà e l'osservatore. Essa, nel suo insieme, assume una valenza semiologica tale da produrre una condizione psicologica intrisa di un'inesorabile voglia di insondabile e di emozioni, atta a favorire in chi la guarda un percorso iniziatico che induce al sapere autocosciente. 
Ravà, sospinto da uno spirito ironico e talvolta scherzoso, invita in ultima analisi lo spettatore a scovare la seconda verità, ovvero quella nascosta, che travalica il dato contingente ed oggettivo, cosicché egli possa crescere sia cognitivamente sia, soprattutto, spiritualmente.

Guido Baldessari

Caro Guido, per un artista tanto variegato ed eterogeneo come te, per il quale discipline come la matematica e la fisica, solitamente lontane dall'arte, costituiscono il perno della ricerca intellettuale, penso che valga la pena richiamare le date fondamentali del percorso creativo per comprendere al meglio lo svolgersi della tua carriera e della tua poetica.

Guido Baldessari nasce il 10 febbraio 1938 a Venezia in campo S. Samuele. Fin dalla prima infanzia egli viene subito a contatto con il mondo dell'arte in quanto, accompagnando il padre che lavora per un antiquario, ha la possibilità di frequentare i pittori, i decoratori e gli intagliatori della Venezia del tempo. E tra le prime personalità che il giovane incontra al celebre bar degli artisti in campo S. Barnaba - siamo durante la metà degli anni 1950 - spicca il nome eccellente di Felice Carena, di cui egli stesso più tardi dirà essere “...come un personaggio ieratico che incute timore per via di quella barba  da uomo del milleottocento”. Frequentando poi la bottega del corniciaio Aldo Bolgarelli, in calle delle Boteghe, presso campo S. Stefano, Baldessari conosce anche Neno Mori, Fioravante Seibezzi e Sergio Varagnolo, artisti che, accanto al padre, egli ascolta parlare d'arte e di pittura così intensamente da apparirgli quasi delle divinità, persone eccezionali toccate dalla grazia di Dio, che alternativamente diventano degli eroi fuoriusciti dai fumetti oppure dei sfortunati Don Chisciotte destinati, al tempo, a non godere del successo che avrebbero meritato. 
Il 1954 per l'artista, che ha compiuto sedici anni, segna l'inizio  della sua carriera. Acquistate le prime tele, i pennelli ed i colori, comincia a  cimentarsi nella pittura,  dipingendo le case ed i palazzi che vede dall'oblò dell'abbaino della sua abitazione. Sono dipinti impostati su un realismo autodidatta ma che testimoniano una spiccata attitudine creativa ed una attenzione, seppur inconscia, verso la geometria ed i volumi. Superata questa prima embrionale, ma decisiva, fase e incoraggiato dai primi risultati positivi, egli capisce di doversi dedicare totalmente all'arte.  
Nel 1955, matura l'idea di ampliare il suo raggio d'azione:  abbandona i panorami colti dalla propria finestra e comincia a dipingere  marine, scorci della città lagunare e, in modo più assiduo, prospettive delle isole della laguna, quali Pellestrina e Burano. Questi ultimi soggetti lo attraggono maggiormente per le forme particolarmente squadrate e geometriche degli edifici (che agli occhi di oggi sono da ritenersi come le prime avvisaglie dei futuri esiti extrarealistici). Spinto dal desiderio di approfondire didatticamente la pittura, nello stesso anno si iscrive ai corsi serali dell'Istituto Statale d'Arte, nella sezione Decorazione. Qui affronta discipline quali Disegno dal Vero, diretto del professor Maragutti, in cui rappresenta solidi geometrici; Disegno Plastico, in cui riproduce copie di reperti statuari per approfondire la sua conoscenza del corpo umano; Disegno Tecnico, diretto dal professor Tonello e con il professo Pajer (futuro Preside della scuola), nel quale approfondisce scolasticamente la sua passione per la geometria. Se di sera si trova all'Istituto, durante il giorno continua la frequentazione, iniziata già col padre, degli studi dei pittori e dei laboratori di doratori, intagliatori e decoratori per aumentare questa sinergia tra scuola e creatività concreta, declinandola poi nella pittura. E tra questi formatori esterni spicca Valenzin, pittore figurativo dai tratti simbolici, che ha lo studio nei pressi della Toletta.  
Tra i diciassette e i diciannove anni, Baldessari evolve ancora la sua pittura. Infatti il tema del paesaggio, basato sullo stile figurativo dal piglio geometrico, cede il passo alla natura morta dalle forme floreali, dai tratti sinuosi e dolci ed impostata su colori più espressionisti e dalle valenze drammatiche.

Diplomatosi nel giugno 1959 come Maestro d'Arte, pur continuando sempre a dipingere, su consiglio del suo insegnante Maragutti, per un anno approfondisce la sua esperienza sul piano tecnico presso lo studio di design “Alfa Studio”, nelle vicinanze di Rialto, dove realizza scritte e disegni per la pubblicità. E nel contempo si iscrive alla Scuola Libera del Nudo dell'Accademia di Belle Arti di Venezia, luogo in cui incontra e conosce  gli artisti Bruno Saetti e Carmelo Zotti. 
Conclusi gli studi, dal 1959 al 1960  il ventenne Baldessari lavora come decoratore presso la ditta “Ceramiche San Polo” diretta dal Prof. Rosa, dove apprende ed approfondisce l'arte della decorazione e l'uso del colori per la ceramica.
Durante lo scorrere quest'anno, il vecchio genere pittorico è destinato a cambiare. L'artista, ospite di un antiquario amico del padre, nei pressi di Erta Canina (a Firenze) respira le arie toscane e ha modo di osservare le opere degli artisti storici, captandone atmosfere, luci e geometrie che poi infonderà nei suoi lavori futuri.
Nel 1960 parte per il servizio militare ed è inviato a Martina Franca in Puglia. Questo luogo modifica in modo determinante il concetto di arte  in Baldessari. Infatti, nei momenti di libera uscita, mentre riproduce ad acquerello e con la matita gli stupendi trulli di Alberobello, rimane progressivamente affascinato dalle composizioni cromatiche dei sassi che compongono le pareti degli case. Tale fascinazione lo porta a tralasciare l'impostazione verista e realista, concentrandosi totalmente sul dato geometrico, ora usato come substrato per creare un mondo simbolico, da cui emergono sogni e fantasie interiori dai rimandi onirici, ma sempre legati alla colorata gamma di matrice veneziana.  
Ritornato a Venezia, nei primi mesi del 1962, con questa nuova concezione pittorica,  viene assunto come scenografo presso il teatro “La Fenice” di Venezia. In questo ambiente, guidato anche dall'esperienza e dalla bravura del valente professor Antonio Orlandini, docente di scenografia all'Accademia di Belle Arti della città, ha la possibilità, oltre che di poter lavorare in un ambito creativo nonché di conoscere varie e valenti personalità del mondo della cultura e dello spettacolo a livello mondiale, di incrementare le proprie conoscenze tecniche. Dunque la capacità di colmare i bisogni esecutivi per costruire emozionanti scenografie baroccheggianti, come per l' “Alcina” di F. Zeffirelli, o suggestive come per “Madre coraggio” di B. Breckt, o il “Tristano e Isotta “ di G. Manzù, gli permette di maturare una forte esperienza progettuale e realizzativa che egli usa anche per creare le sue opere nonché approfondire le ricerche in campo artistico. I maggiori arricchimenti tecnici gli derivano dalle sperimentazioni di ottica che egli ha l'occasione di svolgere durante le prove prima del debutto ufficiale delle opere, in cui può osservare le traslazioni e le rifrazioni originate dai fasci di luce che colpiscono scene ed oggetti.

L'essere stato catapultato in questo fascinoso mondo del teatro veneziano lo fa sentire come un novello Ulisse che vaga oltre “colonne della luce”. La crescita culturale e le relazioni umane che egli ha modo di coltivare all'interno di questa fucina del sapere inevitabilmente cambiano radicalmente gli intenti culturali e creativi di Baldessari che rompe definitivamente con il passato, abbandonando la figuratività ed il realismo. L'artista inaugura una nuova stagione creativa nella quale l'elemento essenziale basilare sono le composizioni generate da “mitragliate grafiche di luce”, ordinate come una sorta di scrittura alchemica che esalta colori e costrutti. Le precedenti forme derivanti dai sassi dei trulli ora si mischiano  alle grafie, ai colori ed alle luminescenze ispirati al palcoscenico, che, sotto forma di graffi, si coagulano creando all'interno del quadro strane sagome che progrediscono in tratti antropomorfici come volessero narrare in modo fantastico racconti fiabeschi, saghe e leggende. 

Per approfondire maggiormente il tempo trascorso presso La Fenice, riporto un breve estratto di un mio testo precedente in merito all'excursus artistico del maestro:“....Egli dunque mira a dare vita a costrutti geometrici che, percorsi dal movimento, siano in grado di suscitare emozioni in cui trionfa la musicalità e la poesia.

Lavorando in teatro acquisisce l'opportunità di sperimentare le qualità tecniche dei più svariati materiali al fine di ottenere gli effetti di luce e dinamismo da lui voluti, nonché ha l'occasione di sviluppare le sue particolari immagini geometriche che poi dipinge rigorosamente a mano e sulle quali egli colloca due pezzi di tulle per creare alterazioni cinetiche, addirittura facendo combaciare perfettamente le linee che formavano il costrutto geometrico con le tramature del tessuto. 

Le geometrie, compenetrate, sovrapposte, accostate fra loro ed impostate secondo diagonalità per infondere maggiore tensione sono oramai divenute architetture mentali per rappresentare ideali metafore di utopie e sogni; ad esempio, il cerchio si trasforma in archetipo di lirismo poetico perché rimanda alla purezza, all'armonia ed alla completezza. Tali architetture si evolvono nella concretizzazione di uno spazio allo stesso tempo immateriale e mentale, privo di riferimenti oggettivi e temporali e perciò percepibili solo attraverso la luce.
Successivamente Baldessari sostituisce il tulle con vetro e perspex e l'architettura sottostante si frantuma maggiormente. Si crea una visione spezzettata e plurima che diviene infinita grazie ai differenti punti di osservazione dell'osservatore. Nell'immagine del quadro si assiste alla deflagrazione verso i lati per aumentare il senso del movimento. Tutti i colori sono acrilici fluorescenti  e sono fra loro giustapposti o contrastanti sul piano cromatico per essere più percepiti.”

Nel 1964 la ricerca di Baldessari fa un'ulteriore progresso. Le trattazioni incantate cedono il posto alla raffigurazione di volti fantasiosi e talvolta veritieri. Non si tratta di un ripensamento verso il realismo, ma di   una espressività protesa a far trionfare la matericità coloristica rispetto alla precedente scrittura, come testimoniano i suoi onirici cardinali.

A metà dello stesso anno, l'artista vive un momento cruciale caratterizzato da grandi mutamenti. Infatti, pur sperimentando con le vecchie modalità, vi è in lui ancora un'altra evoluzione, dovuta al rapporto che egli, da buon veneziano, ha con il mare ed in particolare con i fondali. Da sempre appassionato di pesca subacquea, attratto dai colori e dalle fattezze di conchiglie, alghe, stelle marine ed anemoni, decide di prelevarli per inserirli all'interno di una bottiglia e poi studiarne i vitali movimenti, i riflessi ed i riverberi che la luce crea quando li colpisce ed infine riportarli sulla tela. Questi nuovi spunti visivi e, soprattutto, le nuove forme, gli permettono di inaugurare un ciclo pittorico detto “Ontogenesi”, nel quale  emergono le sue estrapolazioni provenienti dalle sinuosità dinamiche e luminose di questi microcosmi.
Sempre spronato dalla necessità  di andare oltre e cercare sempre, durante 1965 compie un ulteriore scarto: le forme ricavate dall'osservazione del moto degli esseri del suo mondo marino, si stilizzano,  liberandosi degli orpelli naturali, per divenire pure immagini essenziali che si inseriscono all'interno di uno spazio oramai non più pittorico, e in cui trionfa definitivamente la geometria. Quest'ultima per Baldessari assume valenze simboliche che egli sfrutta per le sue creazioni. Linee, curve, spirali, cerchi, triangoli, quadrati, esagoni sono elaborati, modificati, deformati, compenetrati e sovrapposti secondo una modalità empirica, che si ispira alla fantasia visionaria dell'artista. Egli sembra dunque agire come uno sciamano forgiatore di alchemiche immagini, composte da geometrismi dispensatori di latenti emozioni, le quali si arricchiscono di vitalizzante dinamismo grazie alla perfetta sovrapposizione di una lastra zigrinata. Si origina in tal modo un'assonanza (in cui la geometria si sottopone alla volontà del dinamismo del cristallo) la quale trasla tutto su un piano spirituale.

Forte di queste sue nuove concezioni artistiche, alla fine dello stesso anno, si avvicina al movimento artistico dell'Optical Art, o meglio, dell'arte programmata. A questo nuovo mondo creativo Baldessari vi giunge non in modo casuale: infatti esso è la meta non solo di una lunga e costante ricerca artistica, ma anche di un desiderio custodito fin da giovane che si è lentamente palesato. A confermare tale passione verso il cinetismo e le sue derivazioni, vale la pena citare un aneddoto risalente all'adolescenza dell'artista: spesse volte, ritornando dal Lido di Venezia con la motonave, egli rimaneva affascinato dalle vibrazioni cinetiche generate dalla sincronia, sia temporale che luminosa, dei riflessi prodotti dai raggi del sole che illuminavano le ringhiere verticali della terrazza del palazzo di Cà Giustinian e gli apparenti spostamenti da questa prodotti, visti dal suo punto di osservazione il quale, anch'esso, variava in base alle virate  dell'imbarcazione. 

 Spinto dalla volontà di creare una sincronia di movimenti tra più elementi visivi perfetti, infonde vibrazione a queste forme geometriche pure, decidendo di cambiare anche materiali, tecniche esecutive e strumenti, non tanto per una mera necessità pratica, ma perché intuisce che le loro compenetrazioni ed attitudini esecutive gli permettono di metaforizzare la scienza e la tecnica rendendole poetiche, perciò liriche.

Ma non è tutto. Per contestualizzare culturalmente questa sua nuova modalità creativa dove il movimento è il perno fondamentale, Baldessari si avvicina al Futurismo del quale lo attrae il dinamismo, la velocità e l'anticipazione delle cose. Oltre che sul piano tematico, le opere dunque sono il frutto di un attento studio da parte dell'artista rivolto ai materiali che, magistralmente, non solo piega e modifica, ma li dirige per dare vita ad un'immagine lirica, nella quale le vibrazioni della luce permettono la generazione del dipinto. Ma l'uso della luce, oltre che al rimando cinetico, gli deriva dalla sedimentazione inconscia nella mente dei riflessi continui  delle acque nei canali veneziani, esperienza quotidiana che egli viveva normalmente. 
Sempre nello stesso periodo, e per un triennio, aderisce a “Dialettica delle tendenze”. Il gruppo (formato da Marilla Battilana, Sergio Bigolin, Sara Campesan, Franco  Costalonga, Danilo Dordit, Jacques Engel, Oddino Guarnieri, Antonio Niero, Romano Perusini, ed altri), i cui componenti sono spesso rifiutati dalle gallerie inserite nel circolo del figurativo, ma vengono invece aiutati dalla gallerista Fiamma Vigo, si impegna, da un lato, a rinnovare il panorama culturale locale e, dall'altro, a far conoscere gli ultimi esiti della loro sperimentazione organizzando mostre in varie e rinomate località italiane ed estere.

Trascorrono circa vent'anni in cui l'artista sperimenta le innumerevoli variabili di questa sua poetica e partecipa attivamente alla vita culturale della citta di Venezia. Infatti nel 1982 fonda, in compagnia di altri artisti, il gruppo artistico “Materia Prima”. Un insieme sensibile che si pone l'obiettivo, oltre che di continuare a sperimentare, di creare interscambi culturali coinvolgendo artisti provenienti dai più disparati ambiti creativi e da varie parti del mondo. Nascono così programmate iniziative e mostre culturali in ambiti pubblici che culmineranno con la partecipazione del gruppo agli eventi collaterali di ben due Biennali d'Arte di Venezia. 
Spronato da nuovi entusiasmi e dalla voglia di cambiare ancora,  durante il 1984 decide di togliere il vetro che collocava sopra le opere. Questo passaggio apparentemente solo tecnico-esecutivo, in realtà testimonia nell'artista la necessità di travalicare le fascinazioni dell'optical: la dimensione percettivo-cinetica adesso diviene mentale-cosmica in cui la struttura geometrica abbandona le tensioni visive per vivere in piena armonia con il colore e l'intensità luminosa che questo emana.
Anche il 1988 è per Baldessari foriero di importanti novità. Mai sazio di cambiamenti, sceglie di modificare l'empirismo compositivo della geometria che ordina il quadro. Decide di costruire delle sagome, ricavate da silhouette geometriche, che sovrappone sia alle forme sottostanti del dipinto, o fra di esse, le quali, aumentando le sfaccettature luminose e la vorticosa energia intrinseca dell'immagine, proiettano lo spettatore in un ulteriore universo oramai cerebrale, psichico e spirituale.

L'artista, all'interno del suo percorso filosofico, sembra essere giunto ad una essenza poetica in cui la luce, che scorre sugli sfondi neri simboleggianti l’inconscio umano, si muove vertiginosamente e infinitamente creando figure geometriche, intese come manifestazione   razionale di questo io interiore, così da permettergli di misurare e coglierne l’immensità. La velocità, il colore vivo metallico che diventa quasi un  flash-back, la mutevolezza spaziale generano tensioni e vibrazioni così intense che oltre a proiettare lo spettatore dentro lontanissimi spazi siderali ed a farlo roteare assieme a loro, sembrano oramai svelarci l'anima più profonda e sensibile del pittore. 
Passato il primo lustro degli anni novanta, Baldessari muta nuovamente e  crea il ciclo dei ritratti atemporali. Per far vibrare maggiormente il quadro sul piano estetico, arricchisce queste sue geometrie spirituali di immagini giustapposte di volti, lettere ed un attento e raffinato ornato decoratico. Quest'ultimo, poi, è da intendersi come il frutto delle esperienze pregresse, iniziate dalla frequentazione dell'Istituto Statale d'Arte,  ma soprattutto, del suo gusto veneziano  per la decorazione che gli è innato. Infatti le opere non cadono mai nella stucchevolezza ma, al contrario, seppur vorticose, mantengono sempre un equilibrio ideale d'insieme perfetto.

Concludendo questo testo riguardante la lunga carriera artistica di Baldessari, credo sia doveroso ricordare che egli, sebbene abbia iniziato dal verismo, si sia poi fatto attrarre dalle regole della geometria e della matematica, nonché dal cinetismo. Questo perché nel suo inconscio non ha mai voluto fissarsi su un solo tema creativo ma ha sempre cercato di evolversi, di mutare provando sempre con rinnovato entusiasmo. A conferma di ciò, basti sottolineare come la sua volontà di spostare il centro visivo dei suoi quadri ha il compito di fuorviare lo spettatore, il quale è obbligato a compiere uno scarto mentale per giungere alla comprensione di questo suo disorientamento e, perciò, una sorta di spostamento interiore. Forse in ultima analisi questo desiderio di evoluzione e di movimento, per Baldessari altro non è che la testimonianza di essere vivo e di lasciare il suo personale segno tangibile.

lunedì 1 febbraio 2016

Vagiti Ultimi 8 - Cadimi Addosso


L'efficacia di un evento culturale molte volte la si può carpire anche dalla ponderazione che esprimono il suo titolo ed il suo tema. Affermo questo perché pianificare e progettare, come in questo caso, manifestazioni artistiche, non è cosa facile: servono qualità come costanza e serio studio da parte degli organizzatori per evitare di cadere nella banalità o in mediocri revival, nonché la non scontata capacità di individuare artisti in grado di affrontare le tematiche che sorreggono tali mostre. E credo che la rassegna “Vagiti Ultimi”, per il fatto di essere giunta alla sua IV edizione, dimostrando un proficuo lavoro per veicolare l'arte, abbia dimostrato di possedere le sopracitate positive caratteristiche.

            Anche il nome dell'associazione, corrispondente a quello della rassegna, dimostra la voglia d'impegnarsi, di fare cultura nonché un pizzico di fascinosa creatività. Infatti le parole contenute nella locuzione nominale “Vagiti ultimi” formano un ossimoro che esprime, sì, concetti contrari accostati tra loro, ma dalle intriganti interpretazioni foriere di intenzionalità artistiche. Ciò accade perché la figura retorica contenuta nel titolo acquista una particolarità dovuta alla valenza e al posizionamento dell'attributo rispetto al sostantivo. L'aggettivo “ultimo”, infatti, usato per individuare una conclusione di un evento o di un atto, spesso con sfumature negative, talvolta catastrofiche o senza ritorno, come ad esempio, ne “Gli ultimi giorni dell'umanità” di Karl Kraus, in cui l'aggettivo enuncia l'approssimarsi dell'apocalisse sul mondo, nel caso specifico di tale titolo assume un significato sottilmente diverso e addirittura quasi contrario. Essendo la sua collocazione posta dopo il sostantivo“vagiti”, che sul piano letterale indica i primi lamenti dei neonati, simboleggiando dei nuovi principi nell'arte, l'ideale e generale valenza negativa che esso indica si stempera e si trasforma, facendo sì che quest'ultimo assuma un significato letterale e restrittivo in grado di diminuisce la valenza paradossale dell'ossimoro perché lascia intuire che non si tratti degli ultimi risultati finali dopo una lunga serie, bensì degli esiti ultimi, nel senso di appena generati o più recenti in ordine di tempo, che si affacciano nel mondo dell'arte. Infatti tale nome in questa mostra assume un forte valore retorico: come i vagiti reali sono i tangibili segni della vita che inizia e principia, così quelli metaforici indicano la nascita di una nuova opera d'arte che per la prima volta si mostra al mondo.

            Dunque il recondito gioco di parole racchiuso nell'ossimoro può essere tradotto come la volontà, da parte dell'associazione, di mostrare al pubblico le più attuali esternazioni della creatività, ma non in modo casuale, bensì coinvolgendo gli artisti attorno ad un tema intrigante ed apportatore di interessanti prove, come testimonia il titolo stesso della mostra “8 Cadimi addosso”. Quest'ultimo vede l'unione di un numero e di una locuzione che nasconde metaforicamente il vero senso della mostra che gli artisti sono chiamati ad interpretare: il bisogno di equilibrio. Certo, ci sono svariati settori del sapere umano che definiscono l'equilibrio, come la fisica o la chimica, ma credo che in merito alla specificità della mostra, e con particolare riferimento al numero otto ritenuto simbolo dell'armonia universale, esso sia da ritenersi come uno stato in cui ogni cosa è al giusto posto, partendo dalla natura per giungere all'uomo. E' chiaro che questo ha innata in sé la necessità di mantenere saldo il suo baricentro sia interiore che esteriore, ma quando si lascia traviare dalle futili contingenze, perde l'armonia e si incammina verso l'autodistruzione. L'arte pertanto, grazie al suo potere educativo, alla sua evocatività ed alla sua capacità di stimolare pensieri e dialoghi, riveste un ruolo sostanziale per evitare questi sbandamenti da parte dell'uomo.

            E per capire come gli artisti che presenziano a questa mostra manifestino, in base alle loro caratteristiche, una particolare attenzione al concetto di equilibrio, basta osservare le loro produzioni/realizzazioni, a prescindere dal fatto che siano state realizzate con modalità e mezzi appartenenti alla tradizione o alla sperimentazione. Infatti in tutti i lavori si evince subito che il significato che ne emerge è pregno di senso intellettuale mentre il significante non ha nessuna rottura o disarmonia percettiva e sensoriale fra le parti che lo compongono.

            Anche sul piano della ricerca ideale, ogni artista offre un panorama espositivo che lo colloca dentro le tre sostanziali categorie che da sempre, sebbene generino apparenti contrapposizioni, armonizzano il mondo dell'arte, anche già in un semplice rapporto di comparatività. Tali categorie sono: la prima intimista, volta a concentrare l'attenzione sulla dimensione soggettiva o interiore e sugli aspetti, spesso quotidiani, dell'esistenza; la seconda sperimentalista, protesa a provare, verificare e fondere nuove concettualità ed espressività rendendole funzionali e valide; la terza sociale o sociologica, intenta ad indagare le interrelazioni e le organizzazioni della società in cui viviamo nonché il rapporto tra essa e l'individuo e svelarne cause, effetti, pregi e difetti. A conferma di quanto enunciato, basta confrontare i percorsi intellettuali di molti artisti, come, ad esempio, Franco Costalonga, Oddino Guarnieri e Santorossi (l'elenco potrebbe proseguire), i quali pur avendo dialettiche diverse, manifestano serie e robuste consapevolezze artistiche. E' però doveroso ricordare che tali tipizzazioni non sono rigide e chiuse, ma anzi l'una non può esistere senza le altre e tutte fra di loro si possono intersecare, sovrapporre ed aggregare. Queste peculiarità sono riscontrabili pure nei partecipanti alla IV edizione di Vagiti Ultimi perché, secondo le volontà e le necessità interiori o pratiche, essi decidono di far prevalere l'una sull'altra oppure, se indispensabile, le fondono in un costrutto amalgama.

            Restringendo ancora il campo, potremmo affermare che questi artisti, nella piena e saggia libertà dell'arte, sciolta da futili discorsi come la contrapposizione tra passato e moderno, grazie alla loro indispensabile onestà intellettuale, al serio impegno ed alla modalità/strumentalità creativa, vicina alla sperimentazione intellettuale (intesa come pensiero) o alla riflessione intellettuale a sua volta declinata in soggettiva-interiore e oggettiva-esteriore, hanno un'occasione per mostrare ai visitatori le loro valenti opere senza cadere in stucchevoli provocazioni o reiterati passatismi.

            L'artista che inaugura la corrente sperimentalista, protesa a trovare nuove espressività in cui anche la scienza diviene mezzo e non fine per veicolare messaggi è il politecnico Marco Ulivieri, il quale vede l'arte come possibilità per ricreare e cimentarsi con l'inconsueto e la novità. E per attuare questi suoi intenti egli si serve di una personale concettualità programmata, costituita da atti creativi, e di una intenzionalità tecnico-esecutiva salda, quasi scientifica (basti pensare che crea i suoi lavori tramite le oscillazioni di un pendolo che deposita quarzite sul supporto) dalla quale trapelano rimandi allo spazialismo e all’Optical Art. Il soggetto di questo artista è dunque una forma/struttura che si palesa attraverso rappresentazioni di linee, curve, spirali, cerchi e moduli le quali si accostano, si compenetrano o si fondono tra di loro secondo un ritmo codificato in cui tutto è condotto con coerenza, bilanciamento tra le parti, attenzione agli equilibri ed alle assonanze visive. Egli riesce perciò a creare nelle sue opere rapporti perfetti impostati sulla percezione tangibile di uno spazio algido ed astratto e sul senso del tempo che scorre circolarmente, tendendo in tal modo a far cogitare il fruitore sui concetti universali. Come l'artista precedente anche il poliedrico gruppo Star Node interpreta la genialità come possibilità per ricreare e sperimentare. Il collettivo artistico si allontana dall'idea di soggetto rappresentato, inteso come contenuto riconoscibile e sedimentato, per concentrarsi sulla realizzazione di un “prodotto” creativo nel quale emerge la valenza tematica gestuale dell'atto/momento artistico. In tal modo reinterpreta sia la mimesi visiva (intesa come svelazione) che il concetto di supporto, non più inteso come dispositivo o elemento avente lo scopo di sostenerne altri, fissandone nello stesso tempo rigidamente la posizione. L'opera d'arte si trasforma conseguentemente in una sapiente orchestrazione eseguita dall'insieme di artisti, composta da una costrutta sintesi tra svariati settori del sapere umano, quali la scienza e la tecnologia, ed espressività artistiche, come la musica, il tutto racchiuso da una azione performante complessiva che coinvolge sul piano esecutivo non solo i creatori, ma, spesso, anche il pubblico. Un accordo armonizzato, che, avvalendosi sul piano esecutivo delle potenzialità offerte della contemporaneità, come ad esempio mezzi e strumenti tecnologici dalle enormi potenzialità come il computer, tramite la percezione sensoriale mira a sollecitare la sfera emozionale e recondita di chi osserva e/o partecipa alla performance da lui  concepite.

            Alla sezione intimista, nella quale l'artista usa la propria sensibilità per indagare o soggettualizzare l'interiorità propria o dell'umanità tutta, evidenziandone peculiarità e incongruenze, aderisce il gruppo più numeroso dei partecipanti all'esposizione.

            Il primo, in ordine alfabetico, ad inserirsi in questa propensione ideale declinandola poi in ricerca, e decodificandola in dialogo creativo è Valerio Anceschi. Infatti per lui il creatore ha un compito ben preciso: così come l'arte certifica il mutamento umano, allo stesso modo l'artista muove ed origina forme in divenire, sospinto da un anelito inconscio. Si genera pertanto una similitudine che fa emergere  una relazione intrinseca tra l'Io recondito di Anceschi e la vita che nel suo scorrere dissemina indizi sensibili. Le flessuosità, le curve, le spirali, le iperboli ed i grovigli generati dai suoi metalli che, esili e leggeri fluttuano e vibrano armoniosi nello spazio con le loro evoluzioni, testimoniano come l'artista attribuisca al concetto di movimento una duplice funzione: la prima, soddisfare i suoi desideri di artefice; la seconda, far sì che esso divenga simbolo pregno di evoluzione biografica che colpisce chi guarda le sue opere. Lo spettatore allora sarà in tal modo portato a riflettere non solo sull'oggettività dell'opera, ma anche sul senso vitale che questa racchiude. Anche Sebastian Bieniek cerca di dare ordine all'intima spiritualità dell'essere umano, di liberarlo dalle contraddizioni e dai paradossi che lo assillano in quest'epoca contemporanea. Però invece di usare grandi costrutti nei quali, spesso, si è traviati da esagerate complessità, che rendono poco evidente il messaggio, l'artista si serve della semplicità: egli usa una grammatica visiva comune e chiara che sembra fatta per un mondo infantile, ma in realtà è finalizzata a rendere l'immagine comprensibile. Questa semplicità quasi giocosa, basata sulle piccole cose, è tuttavia apparente, perché sul piano elaborativo è frutto di un'attenta progettazione, tesa comunque a far interagire riflessivamente le persone. Le sue foto ci mostrano ritratti surreali di artificiosi doppi volti (osserviamo ad esempio gli occhi: uno è reale in quanto appartiene alla persona ritratta mentre l'altro è simbolico perché disegnato sulla faccia di essa) che ci interrogano paradossalmente sia su concetti negativi, quali la doppiezza, l'incoerenza, l'instabilità interiore dell'uomo, sia sulla necessità di ricostruire  dialogo (nel senso etimologico del termine) tra le due facce: quella dipinta metaforica e quella reale esteriore. Solo ripulendo la sua anima, l'uomo sarà in grado di dare armonia alla propria  coscienza.

            Parimenti la poliedrica e sperimentalista Lia Cavo, con le sue sculture ed installazioni ambientali, si muove all'interno di istanze collettive, indagando l'oggettività che la circonda, concentrandosi sulle tematiche sensibili dell'uomo e cercando di dargli non delle risposte inappellabili ma delle sollecitazioni che facilitino la sua analisi interiore. L'artista realizza opere costituite da elementi antropomorfi, nelle quali i surrogati del corpo umano, i prodotti della società ed il mondo animale o vegetale si compenetrano creando un unicum, capace di dilatarsi nello spazio a seconda delle dimensioni e dotato di forti valenze simboliche, in quanto assolute, anzi soprattutto allegoriche. Infatti queste ultime infondono ai lavori un significato più profondo, nascosto e connotativo in grado di sollecitare il dato riflessivo. Dunque, Lia Cavo vuole sollecitare non tanto il raziocinio quanto l'introspettività dell'osservatore che si relaziona alle sue ammalianti opere, evocando in lui sentimenti, desideri e senso d'identità.

            Sempre in tale categoria ma con diversa sfumatura, si notano le riminiscenze alla statuaria antica presenti nelle sculture di Alba Gonzales, che inducono l'uomo contemporaneo a meditare su come ancora oggi il gusto per il classicismo, quando diviene mezzo espressivo ideale e pratico, necessario per palesare e concretizzare le aspirazioni intellettuali degli artisti nonché veicolare messaggi che penetrano in profondità nell'animo, sia ancora attuale e non  si riduca solamente a muta e stantia reiterazione. Infatti l'intrigante fusione tra le matrici arcaiche  e mitologiche, da una parte, e modalità espressive realistiche, simboliche ed a tratti surreali, dall'altra, di cui le opere della scultrice sono intrise, le scioglie dal solo dato estetico per trasformarle in rappresentazioni di latenti valenze dai rimandi interiori e psicologici (non psicoanalitici) capaci, però, di penetrare nell'inconscio del fruitore e di indurlo ad indagare su se stesso e sulla sua esistenza. In tal modo, Alba Gonzales induce colui che ammira le sue statue a  compiere un atto di consapevolezza, o meglio di pensiero, e tentare di comprendere i propri enigmi fatti da paure, angosce e desideri per cercare di liberarsi ed intravedere una possibilità di miglioramento. Anche la scultrice Luisa Elia indaga le recondite sfaccettature dell'anima attraverso la materia. Quest'ultima è stata trasformata dall'artista, per decodificare le sue istanze ideali, in metafora: così come la vita in base alle sue vicissitudini si mostra mutevole, allo stesso modo la materia, grazie alla sua variabile malleabilità, può esprimere le alterne vicende dell'uomo. E' chiaro che l'artista si allontana dal realismo figurale per addentrarsi in un nuovo ambito in cui prevale la mutazione della struttura che sostanzia il messaggio, il quale vira verso una simbolizzazione delle opere, facendo emergere, da un lato, la consistente e variegata modellazione sulla plastica, talvolta vicina alla modularità, e, dall'altro, una nuova definizione del rapporto materia-forma. Questa assume perciò connotazioni archetipiche, da intendersi come idee innate e predeterminate dell'inconscio perché provenienti dalla mitologia primitiva, ed ancestrali, in quanto espresse istintivamente dall'uomo sin dai suoi primordi. In tal modo l'artista dà vita ad una sorta di “scultura viva” che ha il compito di colpire la psiche più recondita dello spettatore inducendolo a pregne, lontane ed ataviche riminiscenze che lo invogliano ad interrogarsi sul suo Io passato, presente e futuro. Chiude il gruppo di questi artisti che scrutano lo spirito umano ed i suoi risvolti, il pittore Lillo Messina. Egli però, a differenza degli altri, non disamina le relazioni tra il dato interiore e quello esteriore, ma dà vita ad un mondo di evasione, nel quale l'uomo può estraniarsi dalla realtà, spesso costellata da drammi e crasi, per rifugiarsi in un trasognato luogo-spazio che gli permette di ritrovare la catarsi, rifocillare la sua anima e recuperare nuovo vigore per affrontare le burrasche della vita. Le sue forme astratte, dai tratti curvilinei ed impostate su colori plastici e squillanti, si trasformano in una sorta di isole atlantidee sospese, e al contempo immerse, in infiniti sfondi composti da onirici cieli e/o mari dal consistente substrato narrativo. Tutto invita a travalicare la realtà per compiere un periplo interiore, nel quale i dipinti stessi divengono suggestive tappe. Una sorta di rifugio quindi, permeato da luci e colori mediterranei, dalle atmosfere trasognate e surreali intriso, da un lato, di echi e riminiscenze biografiche, che costituiscono il substrato, e, dall'altro, di fantasia che emana una gioiosa felicità in grado di far svagare colui che contempla i quadri infondendogli, allo stesso tempo, stupore, digressioni e fascinazioni fiabesche.

            Alla partizione di ispirazione sociologica, in cui gli artisti usano la loro creatività per tentare di decodificare i cambiamenti della modernità collettiva, aderisce il versatile Luciano Luporetti, il quale, con protesa ed intensa azione intellettuale, vuole rappresentare il mondo contemporaneo in tutti i suoi aspetti, paradossali o meno, avvalendosi di una espressività impostata su un sapiente amalgama composto da tratti figurativi, simbolici, intesi come apertura di senso, surreali e, talvolta, favolistici. Egli infonde alle sue opere una narratività tale che esse divengono intreccio di vicende in cui i soggetti sono l'uomo e la  vita. Da ciò si deduce che l'artista vede l'arte come mezzo educativo per svelare, tramite le metafore dai rimandi letterari-favolistici-fiabeschi, le verità nascoste e le incongruenze umane e sociali. Ma non solo. Luporetti vuole far meditare l'osservatore sulla propria condizione interiore e sul suo rapporto con il mondo in qualità di individuo collocato all'interno di una comunità, offrendogli degli spunti di riflessione (basti pensare all'ampia gamma di riferimenti che partono dal mito antico e giungono alla mercificazione e massificazione attuale) fuori dal tempo e dallo spazio in grado di allontanarlo dal pensiero comune artefatto ed apparente, per fargli cogliere e comprendere le verità nascoste e, allo stesso tempo, reali.

            Concludendo, è doveroso ricordare che la rassegna è nobilitata da un contesto ricco di storia, arte e cultura come quello della città di Atri, splendido gioiello abruzzese incastonato su una collina dalle atmosfere antiche, che si presenta al pubblico snodandosi nei suggestivi ambienti delle Scuderie del massiccio Palazzo Ducale (edificio del tardo Trecento sorto su resti romani). I locali in cui si svolge l'esposizione sono un susseguirsi di stanze sotterranee costruite con solide roccie e dai soffitti culminanti in volte, scelte dall'associazione perché luogo storico ed evocativo ideale per accogliere il percorso intellettuale della mostra ed unire così, in un insieme sinergico, l'antico passato della città con i “vagiti ultimi” della sua cultura cosmopolita contemporanea.

lunedì 11 gennaio 2016

Carlo Pecorelli - Zen

Con la scultura dal titolo “Zen”, che rappresenta una delle tappe del ciclo “Il grande contiene il piccolo”, Pecorelli, artista dalle intenzionalità sociologiche, ci induce nuovamente ad una riflessione sul mondo d'oggi, invitandoci ad osservarlo con occhi nuovi e liberi. E lo fa attraverso la realizzazione di un gigantesco occhiale dalle molteplici valenze allegoriche. Tale oggetto, seppur comune e di uso quotidiano, si trasforma in un ideale viatico di ponderazione su quello che l'uomo contemporaneo potrebbe vedere, ma non vi riesce perché schermato dagli eccessi di razionalità o dall'inutile futilità. Per l'artista, dunque, l'uomo deve protendersi allo svelamento dell'emotività e della ragionevolezza per poter capire il mondo attraverso una nuova e libera visione. Ma la gigantesca scultura, quasi dimenticata per sbaglio in mezzo alla piazza, metaforicamente offre anche altri spunti di ragionamento: i ferri di prua da gondola posti ai lati della montatura, rappresentando simbolicamente Venezia ed i suoi sestieri, unitamente alle stanghette, costituite da un remo che termina in una forcola, elemento tipico della gondola, ci incitano a meditare sulla necessità di mantenere vive le mostre tradizioni e perciò a conservare il nostro territorio. 
Inoltre Pecorelli, grazie all'inganno dell'apparente sottigliezza quasi minimalista dell'acciaio corten, crea una scultura costituita da un sapiente gioco di pieni e vuoti e di esili forme che svuotano i suoi 150 chili, facendoci nuovamente ragionare su come le cose, anche se sottili e/o piccole, possano contenere grandi, e pesanti, verità.

Enrico Manera

L'altro artista impegnato sul fronte formativo sociale è Enrico Manera: grazie alla  sua volontà, che strizza l'occhio a certe istanze alla Popart di sottolineare i contrasti della collettività contemporanea egli tenta di far riflettere l'uomo sulla sua condizione di membro di una molteplice plurale comunità, ponendolo d'innanzi ai  falsi idoli e miti la globalizzazione uniformante congetture quali, ad esempio. E per rendere ancora più fervido il suo intento, nonché il suo messaggio, si avvale di tutti gli archetipi, anche quelli più comuni come gli eroi dei fumetti, veicolati dai mass-media, rappresentandoli così come si percepiscono, ma metaforizzandoli in modo paradossale per dissacrarli con graffiante ironia e svelarne le nascoste e  false congetture ironia e sarcasmo. L'artista vuole che il singolo riprenda ad essere individuo civico attivo e, come tale, ragioni con la propria testa rispetto a ciò che lo circonda, così che si possa rendersi partecipe di un autocambiamento.

venerdì 8 gennaio 2016

Satyam

Sono convinto che se dovessimo riassumere con poche parole l'opera artistica di Satyam basterebbe riflettere sul senso recondito dell'aforisma “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, pronunciato dal chimico Antoine-Laurent de Lavoisier. Affermo questo perché, per l'artista, tale trasformazione immanente sta ad indicare come tutte le verità e le concretezze tangibili del mondo, anche quelle in apparenza distrutte o abbandonate, per l'uomo possono riassumere nuovi significati se rivestite simbolicamente e quindi ritornare ad essere utili. E' chiaro che Satiam va oltre la dimensione del concetto di riciclo in termini semplicemente ecologistici per concentrarsi attivamente sull'influenza che la riesumazione di materiali scartati ha sulla psiche dell'essere umano, sotto il profilo interiore. In questo modo si concretizza la possibilità di meditare sul nuovo utilizzo dei materiali esistenti, magari trasformati in altre forme, ma soprattutto sul significato storico e sociale che questi contengono. Essi sono dunque il pretesto per una riflessione intellettuale e spirituale: partendo dal ritroso memoriale, gli oggetti e gli elementi naturali rinati facilitano nell'uomo la capacità di addentrarsi in profondità nei ricordi, negli aneddoti e di rievocare sensazioni ed emozioni nuove, traendone insegnamenti per il futuro. Questi elementi/oggetti stimolano dunque una ricerca del tempo perduto, o meglio dei pensieri perduti, sia sul piano collettivo che su quello individuale (basti pensare a certi strumenti di uso quotidiano, come la caffettiera, la quale ti fa pensare, allo stesso tempo, sia al periodo storico in cui è stata creata ed usata, sia alle personali e piacevoli sensazioni familiari regalate dai momenti in cui si beve il caffè assieme ai propri cari). Satiam non compie un'operazione “amarcord”, bensì un tentativo di auto-riflessione capace di stimolare e rigenerare l'uomo cosicché egli possa evolversi verso il domani conscio di una rinnovata forza morale. L'artista quindi attribuisce al suo operare una volontà sia sociale ed educativa, tutta protesa ad intervenire sull'io più che sulla società, sia una dimensione quasi terapeutica, come si evince guardando i suoi lavori, nei quali, allontanandosi dalla bieca museizzazione, magari modernariale, si concentra su un'interpretata trasformazione. 
Tale concezione intellettuale è il frutto di una lenta maturazione da parte dell'artista, il quale vi è giunto tramite diversi passaggi, come la giovanile pittura figurativa di genere, lo studio dei grandi artisti, che si è tradotto in un robusto ciclo di loro ritratti, l'utilizzo del collage accostato alla pittura, l'uso della tridimensionalità pittorica data dall'applicazione di oggetti sulla tela e gli accumulo a tuttotondo. Non va dimenticato che queste progressioni artistiche non provengono dai soli approfondimenti artistici, ma sono anche il prodotto di numerosi input derivanti sia dalle sue professioni, come, ad esempio, quella di terapeuta e di artigiano di maschere,  che dalla sua passione per le altre culture e popoli che egli ha conosciuto grazie a numerosi viaggi. Una sinergia biografica  in cui emergono la personalità, sensibile ed introspettiva, la cultura e la manualità dell'artista.
Questa evoluzione riflessiva proposta da Satiam ci induce quindi a meditare oltre le apparenze, travalicando gli schemi ed i preconcetti per cercare di carpire il nostro Io attraverso la rigenerazione del lato sensibile, liberandolo dalla contingenza e rivestendolo di nuovi significati. Si tratta di una sorta di resurrezione di oggetti e/o elementi naturali ritenuti socialmente e culturalmente morti, perché considerati immondizie e scarti, a cui l'artista infonde una nuova vita, e dunque nuova dignità, cosicché essi possano risuscitare, o suscitare, le sopite ed inconsce emozioni dell'essere umano. Tale ripescaggio storico non solo tramuta gli oggetti oramai inanimati in qualcosa di vitale, ma li addensa di valenze simboliche che hanno il compito sia di far riflettere lo spettatore che di indurlo anche ad evadere mentalmente. Infatti, gli elementi naturali, come sassi, foglie e conchiglie, oppure antropici, come oggetti di uso quotidiano o rimasugli di prodotti industriali scartati, si tramutano in allegorie dirette, ovvero comprensibili, o indirette, cioè più criptiche, che l'artista accosta creando delle variegate, eterogenee ed equilibrate agglomerazioni. La  dimensione esemplare di questi accumuli dai tratti tridimensionali è poi arricchita anche dai contenitori in cui essi sono inseriti: le scatole. Queste ultime hanno la funzione di isolare gli  oggetti/elementi dal luogo circostante in cui originariamente si trovavano, ed in cui si davano per scontati, ed inserirli in un nuovo spazio ideale ed atemporale che ne aumenta il dato sia visivo che percettivo e perciò riflessivo. Queste opere sono da intendersi come la summa dei rimandi biografici di Satiam, degli interessi culturali e degli aneddoti di vita, derivati dai viaggi, delle frequentazioni e delle esperienze culturali e religiose, come si intuisce osservando, ad esempio, le iconografie appartenenti ad altre credenze o tratti di pigmento nero che rimandano ad autoctone spiritualità. E molto spesso le opere rievocano persino le ironiche ponderazioni che l'artista compie in merito ad eventi che lo hanno colpito in prima persona o che rimbalzano  agli altari della cronaca globale.
Ma non è tutto. Queste agglomerazioni per Satiam si trasformano anche in epigoni di arteterapia:  l'impegno intellettuale e la manualità esecutiva che richiedono le trasformano in un mezzo curativo per l'artista stesso, in quanto, mentre le costruisce, lo aiutano a rigenerarsi dal suo lavoro ed a riacquistare l'equilibrio interiore.
E' chiaro che queste opere, sebbene complesse sotto molti punti di vista, non sono il traguardo della poetica di Satiam, ma si trasformano in basi per ulteriori sperimentazioni della sua creatività artistica e della sua intellettualità, tanto da divenire, come afferma egli stesso, “...un'espressione di verità poliedrica, in costante cambiamento, in costante evoluzione” volta alla comprensione, e perciò alla crescita, delle realtà sia minute, intime e personali che  collettive ed universali.

Franco Donati

E' facile, quando si osserva un'opera calcografica, cadere nell'equivoco percettivo di contemplarla solo sotto il profilo visivo, magari soffermandosi unicamente sulle corrispondenze mimetiche dell'immagine, rimanendo affascinati dalla super-artigianalità e tralasciando la dimensione sensibile che questa evidenzia prepotentemente. Affermo questo perché il virtuosismo tecnico non si può ritenere e considerare il fine supremo dell'incisione, bensì il mezzo espressivo, da coltivare ed ampliare sempre, che permette di  rappresentare visivamente all'unisono sia la pregnanza del soggetto sia l'anima ed i pensieri dell'artista. Se ciò non accadesse, l'incisione diverrebbe cesello sopraffino, ridondante manierismo, esasperazione virtuosa, ma rimarrebbe solamente un prodotto  debordante verso l'artistico artigianato, magari decorativo, come sembra apparire da certe recensioni in cui è contemplato solamente il segno, come se questo fosse l'unico carattere distintivo dell'incisore. La calcografia, quando è arte, non può solamente “apparire” ( immagine), ma, prima di tutto, deve “essere” (vera idea): solo così il segno incisorio si tramuta da solo atto esecutivo in manifestazione dell'intellettualità  e della personalità di un artista nonché  testimonianza dell'evoluzione del genere umano. Dunque l'essere in ambito artistico si sostanzia di un amalgama composto di biografia, interiorità, intellettualità, ricerca, sperimentazione, studio, spirito di osservazione, apertura mentale e capacità. E Franco Donati manifesta queste caratteristiche. Infatti egli intende l'arte come una vitalistica azione quotidiana che lo porta sempre a ricercare e perciò ad evolversi. Un atto quindi, interpretando le parole di Ralph Waldo Emerson, foriero di positiva creatività che soddisfa quel desiderio di essere un tutt'uno con la natura e la realtà, di sentirsi in armonia nel proprio privato e con l'ordine sociale nonché di avere la capacità di  oltrepassare i propri limiti: insomma avere fiducia in sé e nelle proprie capacità. Questo affrontare la vita con "self-reliance" (fiducia in sé), genera in Donati un ottimismo realista che gli permette di raggiungere i suoi obiettivi anche partendo da una circostanza talvolta negativa. Partendo da questi presupposti, l'artista attribuisce quindi all'arte la funzione di scandagliare la sua interiorità cercando di carpirla per poi decodificarla attraverso un surrogato concreto. L'arte quindi diviene un viatico con il quale egli può osservare  i sentimenti, le sensazioni ed i  desideri prodotti dal suo pensiero. E' chiaro che per fare ciò, Donati si allontana dalla roboante retorica, per concentrarsi su una modalità introspettiva, quasi dimessa, colloquiale e, per renderla più fascinosa, dal piglio simbolico. Ecco perché i suoi soggetti, a prescindere dalla rappresentazione esteriore, in ultima analisi celano, con sfumature variegate e romantiche, l'artista stesso, stabilendo così una nascosta similitudine tra il suo io e l'immagine raffigurata. Questo accade in quanto i riverberi provocati dai moti sia del suo mondo interiore sia di quello esteriore  sulla sua biografia sensibile sono il vero soggetto ideale dell'artista: paesaggi, nature morte e ritratti traslano le loro evidenze visive per divenire megafoni del suo recondito spirito. Per rendersi conto di questa trasposizione del suo io all'interno dell'immagine,  basta guardare le opere con occhi liberi, per scorgere come le rappresentazioni allusive e spesso surreali dei sui soggetti raffigurati, lo sfondo privo di riferimenti spaziali e storici nel quale è inserito un corollario di  segni/simboli per capire che esse altro non sono che manifestazione allusiva dell'introspettività ispirata di Donati d'innanzi alle cose del mondo che attraversano la sua vita. Tenendo conto di quanto afferma egli stesso nella frase: “L'acquaforte è la prima scrittura, l'acquatinta e la marmorizzazione sono la parte pittorica dell'opera, la puntasecca finale eseguita a mano o con un elettroutensile, sono i neri assoluti che danno rilievo, danno voce al segno dell'acquaforte.”, si può dire che la calcografia è il mezzo tecnico ed esecutivo da lui individuato per iconizzare queste sue  sopracitate istanze interiori. Evocando la scrittura come primo atto creativo, sembra che il tentativo dell'artista sia quello di decodificare ciò che sente e prova. Sarebbe ingannevole fermarci solamente a questo solo dato oggettivo, perché Donati non vuole offrirci un unico punto di vista,  ma, attribuendo all'opera, in base anche all'apparato di immagini, un carattere argomentativo, desidera che ognuno di noi possa individuare una sua idea. Come nella poesia, l'incisione in funzione collettiva diviene segno corale dell'uomo.

Antonio Del Donno

         
    Se dovessimo classificare l'Arte, soprattutto quella contemporanea così multiforme, la potremmo inserire, seguendo una traccia aristotelica, all'interno di tre sostanziali categorie: la prima intimista, la seconda sperimentalista e la terza sociale o sociologica. Subito, però, ci accorgeremmo che queste tipologie non sono a compartimenti stagni, ma fra di loro si possono intersecare, sovrapporre e aggregare. Ciò avviene perché gli artisti, secondo le volontà e le necessità interiori o pratiche, decidono di far prevalere l'una sull'altra oppure le fondono in un costrutto amalgama. E osservando le opere del maestro Antonio Del Donno si comprende come egli persegua proprio quest'ultima modalità, tramite la quale, però, l'artista sente il bisogno di infondere nei suoi lavori un rimando all'attualità, tanto che potremmo palare di “attualismo deldonniano”, facendo emergere in tal modo da questa unione una latenza e una propensione verso istanze sociali.
        Allora si comprende come per Del Donno l'arte sia l'unico vero mezzo che permetta la ricostruzione dell'identità umana, che dunque diviene il soggetto ideale del suo fare artistico. In questa epoca fluida, come afferma Z. Bauman, nella quale l'uomo ha perso i suoi riferimenti morali e culturali,  l'artista, esaltando le critiche alla società e scagliandosi contro le negatività attuali, le miserie della vita quotidiana e false mode che portano all'omologazione, vuole riscattare la società per far sì che si possa ritrovare la perduta concretezza.
            Del Donno dunque ha concepito l'opera d'arte sul piano teorico come viatico creativo che gli ha permesso di essere libero da ogni costrizione ed impedimento e capace di generare una pulsione ed una forza tali da indurre alla comprensione ed alla ponderazione lo spettatore. Egli ha così creato un personale mezzo espressivo, tra cui spiccano metafore ed allegorie che lo hanno portato, da un lato, ad iconizzare sia bidimensionalmente che tridimensiolmanlente (giungendo  talvolta alle grandi dimensioni delle installazioni) i suoi pensieri e le sue riflessioni più interne su un determinato soggetto ideale o tema contemporaneo, dall'altro, a coinvolgere lo spettatore nel processo attraverso il quale egli fa emergere in lui la propria conoscenza nascosta o sopita.
            Infatti l'artista grazie alle metafore, intese come un trasferimento di significato o sostituzione di essenza, mira a stupire lo spettatore con immagini dalla forte carica espressiva ed emotiva,  mentre usando le allegorie, in cui qualcosa di astratto viene espresso attraverso un'immagine concreta, cerca di indirizzarlo verso interpretazioni razionali di ciò che è sottinteso nell'opera.
            E così come la società odierna è priva di punti fermi, Del Donno per realizzare queste sue istanze intellettuali non si è fossilizzato su una sola modalità espressiva ed esecutiva, ma si è servito di una strutturata progettualità mentale, supportata da una consistente artigianalità costruttiva, unitamente ad un variegato uso di tecniche, materiali e supporti, che gli ha permesso di far trionfare la funzionalità necessaria sulla sola e costringente estetica (sia visiva che contenutistica), e di sentirsi libero di ricercare e di sperimentare. Egli ha creato dunque una personale maniera di creare  le opere, le quali appaiono sempre attuali ed intrise di armonia ed equilibrio anche quando si presentano volutamente percorse da crasi e contrasti visivi. Non c'è da stupirsi dunque se i lavori di Del Donno sembrano apparenti sfondi teatrali in cui materiali di uso comune - come vetro, legno, metallo, plastica – o figure geometriche, dalle valenze simboliche, spesso debordanti in accenni architettonici, campiture o squarci di colori dal timbro espressionista,  o ancora fotografie, collage, scritte sono sapientemente fusi, accostati, modificati e sovrapposti fra loro per dar vita  ad un solo spazio addensato di pensieri ed impulsi.
            Basta quindi osservare un'opera di Del Donno per capire che ci si trova d'innanzi ad un artista che non si può ascrivere ad una sola categoria esecutiva/creativa, anzi, ogni qualvolta si individuano nei suoi lavori rimandi allo spazialismo, all'astrattismo nonché al simbolismo, li comprendiamo solo in parte. Egli compone un unicum denso di idee, di atteggiamenti, di ironie, di emozioni, di sensazioni e di intenzioni che attrae ed affascina lo spettatore, inducendolo ad una interazione istintiva e cognitiva così forte che favorisce in lui pregne valenze.