lunedì 3 settembre 2012

Stefano Zanus

Caro Stefano
     E' ormai da più di dieci anni che ho l'occasione di osservare il tuo operare artistico e, se dovessi definirlo con una parola, userei l'aggettivo poliedrico. Affermo questo perché ti ho visto nelle vesti di grafico, fotografo, pittore “verista” e “informale”, scultore, performer e creatore di  installazioni. Ma non solo: ti sei profuso nella realizzazione di eventi culturali che hanno coinvolto svariate branche dell'arte. E' poi doveroso sottolineare che, in tutto questo, nulla è mai stato affidato al caso, anzi! E' sempre stato possibile, e lo è tutt'ora, percepire sia l'intenso lavoro intellettuale che le opere nascondono, fatto di studio e progettazione, sia, da un lato, le svariate e giustapposte compenetrazioni tra più le varie tecniche esecutive e, dal'altro, l'utilizzo dei più oculati supporti.
      Tali modalità creative, unitamente alle tue necessità culturali ed alle tue ricerche, ti hanno condotto verso uno sperimentalismo fatto di serietà ed eclettismo che ha accompagnato tutta la tua carriera. Prova di quanto scritto, è la “Dripping Light Art” (ovvero: “L'arte del gocciolamento della luce” in acronimo: D.L.A.). Tecnica, come affermi, che segue un preciso e ponderato schema di svolgimento artistico che nel corso del tempo si è evoluto: progetto di ripresa fotografica, predisposizione dell'apparecchio, esecuzione, sviluppo, elaborazione grafica, preparazione dei supporti e trasferimento delle immagini. Partendo dalla bidimensionalità della pittura ad olio e passando per una tua personale interpretazione dell'Action Painting, impostata sul variare dei movimenti della ripresa fotografica, sei giunto allo spazio tridimensionale ed alla sua gestione, creando istallazioni e performances. Più recentemente, tale percorso si è orientato verso il tentativo di realizzare una scultura fatta attraverso il Dripping. Tale proposito evidenzia non solo un'evoluzione, per altro naturale, ma il tuo bisogno intellettuale proteso a cogliere e rappresentare la mutevolezza del concetto di visione dell'immagine dell'opera, nella quale la luce e l'atto sono gli elementi generatori.
     Come ho già avuto modo più volte di scrivere, la tua Arte è volta ad indagare la società contemporanea, analizzandola sotto il profilo sia sociologico sia metaforico, per offrire allo spettatore uno spunto di riflessione. Questa mia affermazione è suffragata dal fatto che l'opera vede il suo costruirsi all'esterno per aggettarsi, metaforicamente e fisicamente, verso le persone, stabilendo così una comunicazione interattiva, o meglio un transito, di significati tra te, emittente, ed il pubblico, ricevente.
     Anche questa tua nuova esposizione dal titolo “Dripping…after?” (“Dopo il gocciolamento…?”) presso la galleria veneziana “Il Dictynneion” esplicita e rivendica nuovamente gli aspetti che ho espresso poc'anzi,  ma fra i quali mi sento di sottolineare il concetto di gestualità. Quest'ultima, come sottolinei, sul piano esecutivo ti rimanda al Dripping di Jackson Pollok, artista del quale celebri i cent'anni dalla nascita, ma sotto il profilo ideologico essa ne diverge perché il tuo usare la luce della fotografia, anziché quella del colore, ed il tuo agire non attorno ad una tela, ma dentro un contesto atto alle perfomances, ti obbliga a relazionarti non più con il concetto piano della tela contenuta in una ristretta stanza, ma con le grandezze dello spazio aperto e tridimensionale, nel quale il pubblico non è più solo osservatore ma parte o partecipe dell'opera.
     Dunque, la tua gestualità, per la grande quantità di fattori tecnici, metodologici e dimensionali, ti porta a pensare ed a procedere in modo antitetico all'artista americano, il quale, è ovvio, per biografia, necessità ed ambientazione spazio-temporale è diverso da te.
     Oltre a ciò va rimarcato che, avendo inventato un tuo personale metodo fotografico, le tue opere possono esulare dal classico dripping permettendoti di affascinare e stupire il pubblico in ogni occasione.

domenica 2 settembre 2012

Teresa Palombini

Di fronte alla domanda su quale fosse il suo concetto di Arte, Teresa Palombini non ha saputo dare una definizione categorica, perché la considera, modestamente, una “cosa” più grande di lei. Ha poi affermato che lei, più che artista, si sente una persona che dipinge “per dire la sua”. Cosa comunica questa espressione? E' un modo per esprimere il proprio stato d'animo, un disagio, una riflessione su una condizione personale interiore e/o su un evento sociale. In tal modo ella ha la possibilità di sottolineare il suo esserci nel mondo ed il suo agire. E per dar corso a tali propositi, l'artista ha creato una sorta di progettazione esecutiva: una volta maturata un'idea ed aver palesato nella sua mente il quadro, si documenta, recupera informazioni ed immagini, esegue un bozzetto per poi passare alla realizzazione del dipinto. Per essere il più efficace possibile sul piano rappresentativo e comunicativo, nel descrivere e nel raccontare, si è avvalsa di una sua personale ed ideale interpretazione sia del simbolismo sia del surrealismo. Le immagini sono composte da oggetti o da una o più figure poste in primo piano, prevalenti sullo sfondo o sul contesto, ed arricchite da altri elementi o immagini raffigurate con modalità allegorica, attinenti al tema trattato, in modo da evidenziare per paradosso o affinità il pensiero della pittrice. Del surrealismo Teresa Palombini reinterpreta due modalità: il realismo ed il colorismo. La componente realistica rende più funzionali le necessità del dipingere orizzontalmente, modificando la visione di alcuni particolari che visti verticalmente sembrerebbero apparentemente alterati, curandoli attentamente, ma dando, nell'insieme, un'immagine mediata e poco appesantita. La seconda componente, invece, visto che il colore per lei è sinonimo di vita, porta l'artista a creare misture facili di colore ad olio, nelle quali si originano tonalità ben amalgamate ed atmosfere pacate. Sebbene fin da bambina amasse disegnare, creare con le mani, dipingere, ammiratrice delle opere di grandi pittori come R. Magritte, solamente nel 2008 si è decisa di entrare concretamente nel mondo della pittura, iscrivendosi ad un'associazione artistica, prendendo lezioni di pittura e dedicandosi in modo incisivo a concretizzare la sua personale ricerca artistica. La via dell'arte non è facile, ed il perfezionarsi è per un artista necessario, ma Teresa Palombini vi è già convintamente instradata.

martedì 31 luglio 2012

Francesco Selvi

È comunemente usuale immaginare Milano come una città frenetica, trafficata ed al centro della cultura contemporanea, insomma una metropoli aggettata verso il futuro, nella quale l'arte occupa un posto rilevante grazie alle numerose gallerie che promuovono le tendenze più attuali con opere concettuali, video art, installazioni, o con importanti, internazionali e mondani appuntamenti quali MIArt-Art Now, o con l'utilizzo di spazi cittadini per happenig o eclatanti provocazioni, come ad esempio i manichini impiccati in piazza XXIV Maggio nel 2004.
Tale propensione per la contemporaneità però talvolta costituisce un vero e proprio luogo comune che costringe a sviare lo sguardo anche da un'altra dimensione pur presente nella città meneghina, per nulla subalterna ma solamente percepita in tono minore, soprattutto dalla critica e dai mass media: si tratta dell'arte che si struttura sulla tradizione. Dunque la Milano delle architetture moderne o delle fiere futuribili e quella dei navigli con le botteghe dei pittori che ritraggono scorci di città, coesistono in pari dignità a prescindere dalla ribalta pubblicitaria di cui possono godere. Questa dicotomia tra futuro e passato, è bene ricordalo, rappresenta le due facce di una stessa moneta che si sostengono a vicenda. L'arte ha la necessità di far coesistere reciprocamente passato e futuro nel presente, tenendo conto che il passato è sempre sprone per il futuro, il quale a sua volta, sembra logicamente banale ricordarlo, viene trasformato in passato per relazionarsi poi con il nuovo futuro. A conferma di quanto detto, basta citare un esempio che ha per protagonista proprio il capoluogo lombardo: il movimento artistico della scapigliatura, considerato ribelle e modernista dalla pittura romantica e risorgimentale di metà Ottocento, ora è ritenuto un classico pittorico.
Questo accade perché l'arte è semplicemente un atto creativo dell'essere umano, basato su onestà interiore e su un processo intellettuale, gestuale e tecnico acquisito sia teoricamente sia attraverso l'esperienza, capace di essere testimonianza positiva  e sensibile dell'uomo d'ogni tempo.
L'opera del milanese Francesco Selvi si inserisce nella dialettica di questa dicotomia tra seria tradizione e necessaria innovazione e vi partecipa attivamente con le sue peculiarità sia artistiche sia culturali. Basti pensare al robusto concetto di Arte, che Selvi definisce così: “L'arte è come la religione: essa è una categoria che l'uomo ha dovuto porre in essere per dare una collocazione alla sua volontà creativa che è parte di sé. Poi, col tempo, l'arte è divenuta un'attività umana di abbellimento, successivamente un'attività economica ed oggigiorno sembra una fabbrica abbandonata ad un mercato dell'apparire. Oggi pochi mezzi hanno la dote di rappresentare la società attuale come invece sa fare l'arte”. Tale definizione così pregna non nasce dalla casualità, ma da anni di seria e conscia gavetta, la quale ha origini molto lontane e comincia dalla  giovinezza del pittore: egli dipinge già all'età di dodici anni. Adolescente, comincia a rivolgere la sua attenzione, anche per induzione famigliare, allo studio dei classici ed alla pittura del '700 e del '800, passando poi ai macchiaioli ed agli impressionisti, dai quali rimane colpito per la loro capacità di emanare emozioni nonostante le loro opere non seguano il puro e perfetto realismo accademico. Successivamente, più maturo, approda alla pittura del '900, concentrandosi sullo studio di Afro, pittore che, come afferma egli stesso, “sembra apparentemente creare composizioni banali, quasi fatte da persone comuni, ma pregne di armonia e di equilibrio”, meravigliandolo per l'apparente semplicità e la sinfonia di colori e forme primordiali. Contemporaneamente, Selvi si è fatto affascinare anche dall'opera di Ennio Morlotti del quale indaga la capacità, attraverso dei gesti molto semplici, di creare emozioni. Ma non è finita. Parallelamente comincia anche un'intensa attività di figurista che lo porta da un lato, dipingendo i corpi e gli abbigliamenti dei soldatini di piombo, a raffinare il mimetismo pittorico e l'attenzione per la definizione dei particolari minuti, dall'altro, ad approfondire la conoscenza delle varie versatilità della tecnica ad olio. La voglia di sperimentare lo porta, per la resa vibrante dei chiaroscuri, ad utilizzare anche i colori acrilici, presto però abbandonati perché non congeniali alla sua sensibilità pittorica.
All'età di quarant'anni giunge ad una svolta: ormai padrone della tecnica figurinista, decide di passare alla pittura “da quadro”, in cui non solo deve cimentarsi con le grandi dimensioni, ma anche deve adattare la sua ormai esperta manualità su supporti tridimensionali, seppur piccoli,  alla stesura del colore sulla tela bidimensionale. La nuova stagione artistica lo vede assiduo e caparbiamente concentrato a concretizzare le convinzioni maturate durante gli anni, inserendosi nel solco della tradizione della pittura in quanto attratto dal dialogo con la natura, che, oltre a divenire soggetto, è prima di tutto pretesto per creare. Tale propensione al dato naturale diviene viatico per trasporre sul piano materiale del supporto le proprie idee, emozioni oniriche ed impressioni formali. Queste, catalizzandosi ed esprimendosi attraverso la tecnica libera, istintiva ed arricchita di suggestioni naturalistiche/espressionistiche, divengono veicoli di godimento visivo, piacere e tranquillità interiori per chi le osserva. E per far ciò egli crea una sorta di amalgama fatto di  segni e colori che rimandano ad un fondo visivo naturale dal sapore trasognato, il quale compare sia nei paesaggi sia nelle nature morte, e dove, percorrendo sia sul piano ideale sia formale tutto il dipinto,  si catalizzano in senso totalizzante le variabilità di ciò che circonda la vita del pittore. Ma non è tutto: affinché l'impressione visivo-mentale sia più forte, egli non inserisce mai nessuna raffigurazione umana in quanto ritenuta elemento superfluo e di disturbo.
Nel corso di quest'ultimo decennio, in Selvi la dimensione mentale della natura sul piano pittorico è mutata: partendo da una fase dove essa era idealizzata, lontana dalla figurazione, essa è passata ad un momento nel quale il pittore la concretizza sul piano realistico in modo da rendere maggiormente efficace il livello della comprensione, senza però dirigersi verso la sua astrazione. Negli ultimi lavori il concetto di natura è proteso a creare un equilibrio tra la precedente visione informale e la successiva dimensione realistica, in modo da creare una variegata mescolanza indiriuzzata ad un bilanciamento comunicativo ed espressivo.
Sebbene la sua pittura sul piano filosofico sia approdata a nuove mete, sul piano esecutivo essa ha mantenuto costanti alcune sue peculiarità che, anche a distanza di anni, hanno reso riconoscibili le opere: la prima è l'uso dei colori ad olio sia perché, visti i lunghi tempi di asciugatura, danno la possibilità di gestire successive stesure sul quadro, sia perché, oltre al piacere di fare e di creare il dipinto, egli è attratto dalla grassosa matericità e dalla brillantezza del pigmento. La seconda è la possibilità, libera e multiforme che questi pigmenti offrono, di aggredire violentemente la tela con la spatola, o di stendere il colore con pennellate  grevi e cariche. La terza è la tendenza verso il dato realistico, per esempio nel raffigurare i particolari, ricchi di corrugamenti, del terreno, tramite una miscela di colore ad olio e sabbia, creando così una pastoia ed una grumosità materiche veramente accattivanti.
Artista versatile, Selvi, con la sua voglia di dar sfogo a questa sua libertà, di essere tramite di serenità verso il mondo e di ribadire l'indispensabilità del dialogo con la natura, non solo contribuisce a mantenere viva  la cosiddetta pittura tradizionale, ma dimostra ancora una volta come essa sia tassello importante  per l'evoluzione dell'Arte stessa.

giovedì 12 luglio 2012

Alberto Deppieri

Ancora una volta Alberto Deppieri si dimostra artista concreto, versatile e sempre in movimento all'interno del panorama culturale contemporaneo. Infatti non sono passati che soli due mesi da quando, presso il  Centro Culturale “Candiani” di Mestre, ho avuto l'occasione di vedere le interessanti opere esposte in occasione della mostra dal titolo “Sospensione” ed ora mi trovo a riflettere su una retrospettiva dal titolo “Da uomo cavallo a sospensione” presso la galleria Dictynneion. Tale ravvicinata persistenza nel mostrare il suo lavoro al pubblico non solo lo ha portato alla ribalta, ma mi ha dato la possibilità di poter conoscere in modo più approfondito quali siano le sue peculiarità, emerse anche durante un lapalissiano confronto sul suo fare arte. Ed è proprio iniziando a definire il concetto di Arte che è possibile comprendere la profondità intellettuale di Deppieri. Egli, infatti sostiene che questa si manifesti quando forma, materia ed essenza confluiscono in una situazione posta all'interno di un'ambientazione spazio-temporale che vale la pena, o è necessario, creare; essa ha il compito di attirare e/o respingere chi ne fruisce attraverso la sorpresa, ovvero il cogliere alla sprovvista per creare stupore, e provocare riflessione ed emozionalità. Per rendere concreta e tangibile tale definizione, l'artista deve assumersi il compito oneroso, e talvolta periglioso, di saper evadere dalla quotidianità, spesso permeata dal pattume della frenesia mass-mediologica e dal trionfo del vuoto inganno dell'apparire sull'anima dell'essere, per creare delle metaforiche finestre proiettate verso il futuro. L'artista, dunque, si trasforma in una sorta di aedo, che, da un lato, ha la necessità di plasmare la materia dando tutto se stesso: la sua passionalità, il suo ritroso culturale e la sua biografia, miscelando, a seconda delle necessità, tradizione, capacità tecnica e provocazione; dall'altro, ha l'intenzionalità di rimanere onesto moralmente e culturalmente con se stesso per non creare artifici atti a fuorviare il fruitore. Partendo da tali presupposti, che vedono l'artista aggettarsi nel futuro per captarlo, anche l'opera d'arte si deve interpretare non come un qualcosa di idealmente definito e chiuso, ma come una sorta di quesito che l'artista stesso, attraverso il suo Io, rivolge agli uomini. Questi ultimi, mediante i propri sensi, l'intuito ed il libero pensiero assorbono il messaggio nel loro inconscio per costruirsi una propria personale ed intima risposta. L'opera è dunque un simulacro nel quale una realtà univoca, paradossalmente, palesa ed emana altre realtà che viaggiano all'unisono. La dimensione percettiva, ai fini della formazione di una risposta propria di ciascun individuo, perciò da sola non basta: è necessario che chi osserva l'opera si liberi della razionalità e del ritroso storico per farsi attrarre dalla memoria evocativa nella quale le immagini riaffiorano alla mente come riecheggi lontani dai tratti fantasiosi. E per realizzare un'opera così articolata, Deppieri usa i mezzi che la contemporaneità offre e li fonde con la sua sapienzialità tecnico- esecutiva. Usando vari supporti, dalle tele alle tavole, egli prende spunto da immagini video e/o pellicole, ne fotografa alcuni spezzoni, li estrapola, poi, dal contesto per svilupparli e stratificarli con il disegno, il colore e le resine. Oppure egli mischia questi tre ultimi elementi sovrapponendoli per mezzo della pittura orizzontale che gli permette particolari manipolazioni. Anche  su questo versante creativo prettamente pratico, non emerge mai la casualità. Questo perché nel percorso esecutivo di Deppieri si riscontra una latente ed innata progettualità, maturata, in area veneziana, prima all'Istituto Statale d'Arte e irrobustita poi all'Accademia di Belle Arti, arricchita infine da studi passionali su artisti quali, ad esempio, W. Kandinsky, Piero Della Francesca nonché da influssi di altre manifestazioni culturali, come la musica. Ecco perché nei suoi lavori, oltre ad una percezione mentale archetipizzante ed inconscia, si coglie sempre una captazione visiva funzionale, imperniata su una dimensione di equilibrio, di armonia, di eleganza e di giustapposta calibratura geometrica. A conferma di ciò, è doveroso ricordare l'importanza che la luce riveste nell'operatività di Deppieri: essa trasforma il dipinto in una atmosferica dimensione spazio-temporale, protesa a far emergere il mondo interiore dell'artista  fatto di flebili ed indefinite  tracce, le quali permettono ad ognuno, se ha la capacità, di cogliere i propri personali riverberi. Riprendendo il discorso sulla retrospettiva veneziana, le opere esposte ci danno la possibilità di poter riscontare dal vivo quanto scritto poc'anzi. Alcune di esse sono disposte secondo una modalità dicotomica di massima, che offre i due concetti di luce insiti in Deppieri: nella prima disposizione, si esalta il dato simbolico e sociologico, come si evince nell'opera “Pinocchio”; nella seconda disposizione, la luce assume la duplice funzionalità di sollecitare, da un lato, l'aspetto fisico/optical dell'opera, che, unitamente alla costruzione prospettica, induce il fruitore ad interagire con essa per goderne al meglio le varie sfaccettature, dall'altro, di far rievocare alla mente memorialità recondite dai tratti romantici. La prima parte, come in altri alcuni  lavori, si indirizza verso una matrice figurativa o antropomorfa, mentre nella seconda sono ripresi ed interpretati i tratti paesaggistici di Forte Marghera: questo infatti è un luogo nel quale l'artista ha lo studio e che, per la sua importanza, ha eletto a pretesto-contesto creativo. Credo che la personale e convincente motivazione culturale maturata da Deppieri lungo tutto il suo ritroso, sia come uomo che come artista, lo abbia portato a concepire il suo lavoro come il tentativo di far emergere la componente spirituale intrinseca dell'essere umano cercando di renderla tangibile, in quanto, seppur instabile, imprevedibile e nascosta, è pur sempre parte indissolubile di esso.

martedì 3 luglio 2012

Pio Penzo

Con la mostra “Ricordi”, si è voluto rendere omaggio, a quindici anni dalla scomparsa, ad un grande artista: Pio Penzo (Schio 1926, Venezia 1988). Pittore ed incisore, egli è stato una delle figure storiche dell’Arte italiana del secondo dopoguerra per quanto concerne la grafica. Questa tecnica nel corso del tempo, in particolare sul finire del XIX secolo, è stata spesso relegata a ruolo di arte “minore”, quasi a carattere illustrativo, ma a cui a buon diritto bisogna attribuire il suo giusto valore intellettuale, soprattutto  per gli esiti che essa ha raggiunto con Penzo. Personaggio schivo ed introverso, lontano dalle mode e dal clamore, Penzo era tutto teso a scovare  la purezza interiore e la spiritualità dell’animo umano, per arrivare a far emergere una sorta di religiosità quasi mistica. Tutta la sua poetica artistica, di conseguenza, era indirizzata ad indagare sul connubio tra “interiorità e natura”, fatto di calibrato equilibrio della composizione, di armonia  tra i vari soggetti, di chiarezza delle forme, in cui la figura umana è assente perché vista come “disturbatrice” di questo sublime creato. L’indagine del reale tende all’astrazione non fisica ma mentale, quasi metafisica; regnano sovrani il silenzio, la calma e la serenità, perché  tutto deve essere contemplato senza interferenze. Ci si incammina così in un sentiero filosofico dove tutto è proteso al supremo, all’infinito, al divino... Questo suo anelito poetico, sebbene in lui si possano ravvisare echi morandiani, si innesta nella tradizione incisoria veneta, fatta di attenzione alla natura e di rapporto fra luci ed ombre; di questa tradizione, infatti, egli é stato, oltre che  un continuatore, un divulgatore a livello internazionale. Virtuoso del bulino, che scorre magicamente sulla lastra di zinco o di rame, ci conduce in una natura percorsa da tratti fortemente veristi, dove si riconosce a colpo d’occhio la purezza del segno, la precisione, l’ordine, la chiarezza. Questo segno si trasforma, sulla lastra, in un fitto reticolo che rende fisico, vivo, e palpitante tutto ciò che incide. Come si può vedere, osservando le sue opere e scorrendo le sue varie raccolte, l’analisi di questo universo naturale ha toccato diverse tematiche, in cui però si intravedono tre direttici. Nei paesaggi  cittadini come “Miranda” o “San Geminiano”, gli elementi architettonici (case e strade) sono generati dall’unione della natura con la geometria, cioè la razionalità indagatrice, e sono colpiti da tocchi di luci secche, le quali imbrigliano il chiaroscuro delle forme solide arricchendole di plasticità. D’altra parte, nei boschi, nei paesaggi agresti o montani, talvolta imbiancati di neve, come “Neve” o “Burano”, la geometria cede il passo al frastagliarsi della luce in una miriade di sapienti effetti chiaroscurali, che, variando dai bianchi sino ai neri,  colpiscono per la palpitante vibrazione sia visiva, sia soprattutto interiore. Mentre nelle narrazioni dal taglio vedutista della raccolta “Egitto” del 1985, si vedono la precisione e la naturalezza dei particolari: sembra di  scorrere un album di fotografie. E’ doveroso, dunque, continuare a far conoscere ai posteri l’arte di Pio Penzo, non solo per rigenerare il mondo della grafica, ma soprattutto per far sì che sempre più persone possano immergersi nella poetica di questo artista tanto riservato quanto valente.

giovedì 7 giugno 2012

Luigi Faraon

“…Io mi soffermerei sull'acquerello “Crepuscolo sul Sile” con la sua atmosfera così particolare tanto che se noi cambiassimo il titolo in “Crepuscolo sulla Senna”, potremmo tranquillamente percepirlo come uno scorcio parigino. La tecnica usata per l'esecuzione, osservando a volo d'uccello, si può perciò definire impressionista. Il soggetto diventa pleonastico grazie a questa tecnica oramai internazionalizzata. Ma se noi camminassimo idealmente dentro il dipinto scopriremmo la vera matrice del pittore, sempre presente in ogni artista, che in questo caso si manifesta nell'uso, minuzioso, del colore tonale veneto. Basti osservare l'evanescenza e la vibrazione cromatica dei lampioni che costeggiano il lungo fiume trevigiano, dove l'elemento fisico addirittura tende a scomparire, diventando solo atmosfera. Dunque quella stessa tecnica che ad un primo colpo d'occhio sembrava prettamente impressionista, cioè importata da un filone artistico straniero, in realtà si dimostra del tutto autoctona, connaturata con il nostro più intimo tessuto culturale.
In un altra opera dal titolo “Il Tramonto”, il colore si fa talmente evanescente, che l'aria è oramai divenuta magica: non vediamo più il sole cedere il passo alla notte, ma ammiriamo quasi un  capriccio veneziano fatto di fantastici riflessi…”
Con queste parole, incontravo per la prima volta le opere del Maestro ed amico Luigi Faraon; ora a distanza di qualche tempo ho l'occasione di vedere un'Antologica di altri suoi lavori, e subito scorgo la maturità tecnica, ma soprattutto spirituale, che tali operette, perché di piccolo formato, già  mostravano allora. Il pigmento è diventato ancora più vibrante e allo stesso tempo sfumato, tanto da sembrare, osservato a distanza, quasi un'altra tipologia esecutiva. Questo dimostra che Faraon  percepisce la dimensione naturale non più come rappresentazione di elementi fisici, ma come elemento spirituale. La sua sensibilità gli permette così di sublimare gli input che gli derivano dalla realtà naturale, per rappresentarli poi sulla tela con affascinanti risultati.
Complimenti Luigi! E' stimolante osservare i tuoi lavori.

Breiksa Ieva Sara

Mi è capitato più volte di vedere opere d'arte nelle quali il soggetto è ispirato dalla danza o dalla musica o addirittura talvolta dalla fusione delle due. La storia dell'Arte in tal senso offre una corposa lista di esempi illustri: si pensi al rapporto musica-pittura del russo Wassily Kandinsky, per altro valente musicista, oppure ai bronzetti di Degas raffiguranti ballerine adolescenti. Ma vi è anche un'altra via: quella nella quale l'artista stabilisce una simbiosi tra il suo fare arte ed una passione, esterna all'arte stessa, della quale egli non riesce a farne a meno e che egli non solamente osserva e studia ma pratica con accesa dedizione e continuata assiduità, tanto da piegare la sua espressività artistica alla rappresentazione quasi ossessiva del suo interesse.
L'osmosi tra l'arte pittorica e l'arte della danza ha catturato anche Ieva Sara Breiksa. E per capirlo, basta semplicemente osservare le sue opere che hanno come soggetto esclusivo il tango. Infatti ella oltreché poliedrica artista è anche valente ballerina e pratica in modo assiduo e coinvolgente sia tale tipologia di ballo sia il flamenco andaluso. Ma non è tutto. Nella traduzione sul piano iconico di questa intensa passione, Sara Breiksa alimenta costantemente la sua creatività pittorica e soprattutto la sua infatuazione verso il tango. E credo che le parole del ballerino argentino Miguel Ángel Zotto, di origine italiana, riescano ad esprimere in modo appassionante quanto sia viscerale l'amore che l'artista prova per questo ballo:  “Il tango non è maschio; è coppia: cinquanta per cento uomo e cinquanta donna, anche se il passo più importante, l' "otto", che è come il cuore del tango, lo fa la donna. Nessuna danza popolare raggiunge lo stesso livello di comunicazione tra i corpi: emozione, energia, respirazione, abbraccio, palpitazione. Un circolo virtuoso che consente poi l'improvvisazione.” E per realizzare sul piano ideale questa corrispondenza tra la sua pittura e la sua vita, Ieva Sara Breiksa si avvale di una personale tecnica pittorica derivata dalla fusione tra abilità, sensibilità, conoscenze e competenze, queste ultime maturare e traspirate frequentando le istituzioni artistiche di vari paesi quali la Lettonia, sua terra natale, la Francia dove frequenta l'Accademia di Belle Arti di Parigi) e l'Italia .
  Le sue opere quindi si caratterizzano sotto il profilo visivo dall'accostamento di campiture dai forti contrasti timbrici, create attraverso un colore materico capace di far emergere contemporaneamente sia il volume plastico nelle figure sia gli effetti chiaroscurali e di renderle scattose e spigolose così da accentuarne il dinamismo delle loro movenze. Il colore, caldo, dunque  origina e segue il passo di danza dei ballerini a tal punto che li illumina con una luce angolata per accentuarne il senso del movimento. In tal modo i corpi dei danzatori assumono la dimensione di un verismo vibrato, materico dal forte impatto plastico, quasi scultoreo, fatto di figure, passi, pose e sequenze ed ambientato in un vagheggiato palcoscenico, che se da un lato rimanda, tramite accenni, alle atmosfere di quello delle milonghe, le balere dove si pratica il tango, dall'altro, vista l'inquadratura di media altezza dove sono posizionati i corpi, ha il compito di accentuare l'enfasi dei gesti. Oltre a ciò, ogni singolo lavoro è permeato da una forte emozionalità che si focalizza nell'esaltazione di una sensualità calda, vorace e turbinosa, tipica del tango, in grado di far provare allo spettatore lo stesso coinvolgimento provato dall'artista. Talvolta il movimento delle figure e dei corpi crea coreografie composite che si muovono in più dipinti consequenziali, aumentandone il senso di attrazione e di fascinazione.
Nelle opere più recenti di Ieva Sara Breiksa, il dato realistico, seppur vibrato, sta lentamente perdendo il suo aspetto formale, per divenire libero e vorticoso colore la cui intensità giustapposta aumenta il dato intuitivo più che figurativo: lo spettatore è portato a cogliere non più il movimento del ballo quanto piuttosto la sua percezione mentale.

mercoledì 2 maggio 2012

Nicola Morera

Da quando l'uomo è comparso sulla terra si è sempre posto domande sulla sua esistenza, sul suo passato e su tutto quello che lo circondava, dandosi, in base ai mezzi che aveva a disposizione,  le più svariate risposte. Tali quesiti nell'era contemporanea, nonostante le innovazioni tecnologiche e l'evoluzione della comunicazione di massa, non solo non sono stati risolti ma addirittura hanno avuto un incremento. L'uomo oltre a tentare di comprendere questi interrogativi ha sempre sentito anche l'esigenza di dar loro anima e sostanza avvalendosi dell'Arte, cercando di metabolizzarli e metaforizzarli tramite surrogati capaci di mettere in luce latenze sensoriali, emozionali e razionali: basti pensare all'evocatività delle rappresentazioni artistiche dei personaggi o dei mostri che popolavano la mitologia  greca. E anche Nicola Morea, artista colto e versatile, ha voluto contribuire alla codifica di queste istanze irrisolte.
Affascinato da sempre dai misteri, dalla scienza e dalla fantascienza, egli ha usato la sua pittura, pregna di ponderata istintività e di gestualità, per la creazione di un ciclo pittorico dall'emblematico titolo “Enigmi”, nel quale il suo personale punto di vista, focalizzato sulla rappresentazione di alcuni dei più famosi arcani, si trasformasse in un viatico per un dibattito aperto con l'osservatore che in tal modo è costretto a confrontarsi con le proprie credenze, conoscenze e convinzioni. Ma perché la rassegna potesse essere veramente un efficace input per uno scambio di opinioni, l'artista ha voluto impostarla sulla compenetrazione tra la componente allegorica dell'arte ed alcune modalità interpretative: didascalica in quanto rappresenta delle successioni di opere sia sul piano ideale sia su quello artistico; propedeutica perché informa ed insegna; divulgativa perché favorisce lo scambio di idee ed indagatoria perché si avvale del vaglio scrupoloso offerto dalle certificazioni offerte dalla scienza attuale. Tutto ciò ha prodotto un nutrito numero di opere, realizzate grazie ad una diversificazione sia dei materiali, smalti all'acqua talvolta accompagnati dal pastello all'olio, mosaici, elementi tridimensionali, sia di svariate modalità di pittura come l'action  painting e le stesure di colore con particolari strumenti realizzati da egli stesso. La produzione è stata poi  divisa in cinque aree d'indagine. La prima analizza in senso consequenziale la teoria del Big Bang  dal momento iniziale della “singolarità” sino all'universo attuale. Tale progressione ideale dell'universo sul piano pittorico assume valenze dicotomiche rese attraverso la stesura dei colori i quali partendo dai primordiali toni freddi, via via gradano verso intensità più calde per giungere all'odierno miscuglio astrale. La seconda ripropone una rappresentazione analitico-visiva del sito preistorico di Stonehenge, rappresentato sia in pianta che in prospetto. La terza è protesa a sottolineare il mistero senza tempo che circonda i Moai dell'isola di Pasqua. La quarta cita le cosiddette “Figure di Nazca”, in Perù, riproducendo le linee geoglifiche presenti su tale altopiano che raffigurano una scimmia, un ragno, un'astronauta ed una pista. La quinta si incentra sull'evidenziare i rapporti astronomici che legano le piramidi e la sfinge della piana di Giza, in Egitto, con le costellazioni del Leone e di Orione. Infine la quinta vede una miscellanea di dipinti concernenti altri misteri quali: la pianta di Atlantide, secondo le indicazioni contenute nel “Timeo” e nel “Crizia” di Platone; la millenaria colonna indiana priva dei segni del tempo che avrebbero dovuto essere causati dalla ruggine; il triangolo delle Bermuda troncato; la riproduzione di un vecchissimo oggetto d'oro, ritrovato in Colombia, dalla irreale forma per l'epoca di fabbricazione, che ricorda la sagoma di un aereo militare; il paese degli enigmi simboleggiato da una bandiera italiana intaccata da lettere che, unendole, formano la parola “ENIGMI”.
Il ciclo quindi diviene uno strumento d'indagine imparziale nella riflessione, privo sia dell'estremizzazione dell'ortodossia scientifica di stampo positivista sia della visione irrazionale della fantascienza. Da tale rassegna emerge perciò che ogni confutazione, seppur convenzionalmente riconosciuta, non deve mai essere data per assoluta, in quanto ogni certezza può variare nel corso del tempo e può essere superata da nuove verità prima impensabili.
E' perciò doveroso sottolineare che per la realizzazione complessa, corposa e particolareggiata e per le riflessioni culturali ed ideali che induce, questo lavoro di Morea  non è solamente un invito al dialogo conoscitivo, ma è anche da intendersi come uno sprone per l'arricchimento intellettuale e la duttilità mentale .

Maurizio Canatta

Caro Maurizio
E' proprio vero che le buone cose con il tempo migliorano. E' passato quasi un lustro dal nostro ultimo incontro a casa tua nello splendido borgo di Refrontolo, adagiato dolcemente sulle colline trevigiane. E' stato fruttuoso ed interessante rivederci nuovamente, questa volta a Susegana nel tuo studio-atelier, in un pomeriggio di fine marzo, per ascoltare le riflessioni sul tuo lavoro, e constatare come la tua serietà e volontà d'artista siano immutate, se non aumentate. Hai voluto sottolineare, dimostrandolo con i fatti, come sia importante una solida conoscenza dell'Arte, della sua storia e dei mezzi di espressione ma, soprattutto, come l'artista, anche se con fatica, sofferenza ed  incomprensione, debba rendersi utile alla società nel suo ruolo di propulsore verso il futuro ed il progresso. Per te quindi l'artista, anche se non capito dalla ingenuità e dalla massificazione, deve essere testimonianza tangibile dell'impegno e del creare.
Il Camatta che ho rivisto si è però evoluto dall'ultima volta e per certificare tale mutazione, mi servirò di una modalità didascalica tralasciando titolazioni e soggetti per concentrarmi sulle scansioni di questo tuo percorso creativo. La prima fase, sebbene tu abbia iniziato dal segno, si è sostanziata sulla tua esigenza di confrontarti con la materia nella sua tridimensionalità: l'hai  aggiunta e compattata dando origine a pitto-sculture materiche, cangianti e dai forti tratti estetici, frutto di un intenso lavoro di decorazione protesa al bello utile, nelle quali compare un realismo lirico ed interiorizzato. La successiva evoluzione, dopo aver aggiunto, lavorato e digerito la materia ed essertene “stomacato”, perché oramai priva di poesia, ti ha visto via via togliere corposità e massa protendendoti verso un nuovo lirismo più puro ed una nuova interiorità libera dalla figurazione. Nel terzo momento arriva la svolta: abbandonando definitivamente la matericità sei passato al colore, che, seppur libero dall'ingombro della materia e più versatile, hai continuato ad aggiungere per i tuoi scopi. La quarta versione, quella più vicina a noi, è stata per te il momento della rottura: assuefatto anche dal sovrapporre pure il pigmento hai pensato di spuriarlo. Ma non solo. Anche sul piano esecutivo sei giunto ad una nuova dimensione: dopo l'impeto della gestualità, arriva in te una decantazione che ti conduce ad una intenzionale e razionale elaborazione protesa nuovamente verso percezioni dai tratti figurativi, tanto che una volta concluso l'intervento, il dipinto assume un senso di visione verticale che lo stabilizza. La macchia stesa di getto, viene fatta riposare per poi essere ordinata mentalmente, il tutto sottolineato da un mimetismo che amalgama e bilancia l'aggiungere ed il togliere.
Le creazioni attuali, da me osservate durante il nostro incontro e che sul piano critico mi permettono di riprendere una dimensione argomentativa, oltre alla necessità di conciliare l'accumulo e la rimozione degli elementi, mostrano il tuo odierno e latente desiderio di purificazione spirituale ed intellettuale e si concretizzano inizialmente nella raffigurazione del cielo. Tale soggetto, per definizione, è atto a divenire spazio mentale nel quale il colore assume toni talmente sottili e vibranti da far traslare la mente e portarti altrove. Ma questa aspirazione di pulizia ed equilibrio spirituale e formale è debordata anche su altri successivi lavori pittorici, nei quali il tuo bilanciamento ideale e visivo, fatto di materia unita al colore, cede il passo ad una proporzione sensibile tra realismo e speculatività. Quest'ultima, poi, è rappresentata da squarci concettuali che rompono dinamicamente l'insieme visivo del dipinto, creandone un altro, il quale è, però, in stretta e calibrata coesistenza col precedente così da apparire un insieme fluido che lega materia e colore.
E' fuor di dubbio che le tue opere sul piano artistico siano una novità: in loro si rivede  ancora il tuo impegno d'artista in ambito sociale. Se poi lette in chiave metaforica, esse divengono uno specchio dell'anima inducente l'uomo contemporaneo ad una presa di coscienza: guardarsi dentro e fare i conti con se stesso, concretizzando la necessità di ritrovare, o creare, un equilibrio ideale tra egli e la natura e tra il suo passato ed il suo futuro. Tale introspezione però, secondo la tua intenzione, non è da contemplarsi come dimensione negativa, ma deve essere uno sprone per la  ritrovata serenità.