lunedì 11 gennaio 2016

Carlo Pecorelli - Zen

Con la scultura dal titolo “Zen”, che rappresenta una delle tappe del ciclo “Il grande contiene il piccolo”, Pecorelli, artista dalle intenzionalità sociologiche, ci induce nuovamente ad una riflessione sul mondo d'oggi, invitandoci ad osservarlo con occhi nuovi e liberi. E lo fa attraverso la realizzazione di un gigantesco occhiale dalle molteplici valenze allegoriche. Tale oggetto, seppur comune e di uso quotidiano, si trasforma in un ideale viatico di ponderazione su quello che l'uomo contemporaneo potrebbe vedere, ma non vi riesce perché schermato dagli eccessi di razionalità o dall'inutile futilità. Per l'artista, dunque, l'uomo deve protendersi allo svelamento dell'emotività e della ragionevolezza per poter capire il mondo attraverso una nuova e libera visione. Ma la gigantesca scultura, quasi dimenticata per sbaglio in mezzo alla piazza, metaforicamente offre anche altri spunti di ragionamento: i ferri di prua da gondola posti ai lati della montatura, rappresentando simbolicamente Venezia ed i suoi sestieri, unitamente alle stanghette, costituite da un remo che termina in una forcola, elemento tipico della gondola, ci incitano a meditare sulla necessità di mantenere vive le mostre tradizioni e perciò a conservare il nostro territorio. 
Inoltre Pecorelli, grazie all'inganno dell'apparente sottigliezza quasi minimalista dell'acciaio corten, crea una scultura costituita da un sapiente gioco di pieni e vuoti e di esili forme che svuotano i suoi 150 chili, facendoci nuovamente ragionare su come le cose, anche se sottili e/o piccole, possano contenere grandi, e pesanti, verità.

Enrico Manera

L'altro artista impegnato sul fronte formativo sociale è Enrico Manera: grazie alla  sua volontà, che strizza l'occhio a certe istanze alla Popart di sottolineare i contrasti della collettività contemporanea egli tenta di far riflettere l'uomo sulla sua condizione di membro di una molteplice plurale comunità, ponendolo d'innanzi ai  falsi idoli e miti la globalizzazione uniformante congetture quali, ad esempio. E per rendere ancora più fervido il suo intento, nonché il suo messaggio, si avvale di tutti gli archetipi, anche quelli più comuni come gli eroi dei fumetti, veicolati dai mass-media, rappresentandoli così come si percepiscono, ma metaforizzandoli in modo paradossale per dissacrarli con graffiante ironia e svelarne le nascoste e  false congetture ironia e sarcasmo. L'artista vuole che il singolo riprenda ad essere individuo civico attivo e, come tale, ragioni con la propria testa rispetto a ciò che lo circonda, così che si possa rendersi partecipe di un autocambiamento.

venerdì 8 gennaio 2016

Satyam

Sono convinto che se dovessimo riassumere con poche parole l'opera artistica di Satyam basterebbe riflettere sul senso recondito dell'aforisma “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, pronunciato dal chimico Antoine-Laurent de Lavoisier. Affermo questo perché, per l'artista, tale trasformazione immanente sta ad indicare come tutte le verità e le concretezze tangibili del mondo, anche quelle in apparenza distrutte o abbandonate, per l'uomo possono riassumere nuovi significati se rivestite simbolicamente e quindi ritornare ad essere utili. E' chiaro che Satiam va oltre la dimensione del concetto di riciclo in termini semplicemente ecologistici per concentrarsi attivamente sull'influenza che la riesumazione di materiali scartati ha sulla psiche dell'essere umano, sotto il profilo interiore. In questo modo si concretizza la possibilità di meditare sul nuovo utilizzo dei materiali esistenti, magari trasformati in altre forme, ma soprattutto sul significato storico e sociale che questi contengono. Essi sono dunque il pretesto per una riflessione intellettuale e spirituale: partendo dal ritroso memoriale, gli oggetti e gli elementi naturali rinati facilitano nell'uomo la capacità di addentrarsi in profondità nei ricordi, negli aneddoti e di rievocare sensazioni ed emozioni nuove, traendone insegnamenti per il futuro. Questi elementi/oggetti stimolano dunque una ricerca del tempo perduto, o meglio dei pensieri perduti, sia sul piano collettivo che su quello individuale (basti pensare a certi strumenti di uso quotidiano, come la caffettiera, la quale ti fa pensare, allo stesso tempo, sia al periodo storico in cui è stata creata ed usata, sia alle personali e piacevoli sensazioni familiari regalate dai momenti in cui si beve il caffè assieme ai propri cari). Satiam non compie un'operazione “amarcord”, bensì un tentativo di auto-riflessione capace di stimolare e rigenerare l'uomo cosicché egli possa evolversi verso il domani conscio di una rinnovata forza morale. L'artista quindi attribuisce al suo operare una volontà sia sociale ed educativa, tutta protesa ad intervenire sull'io più che sulla società, sia una dimensione quasi terapeutica, come si evince guardando i suoi lavori, nei quali, allontanandosi dalla bieca museizzazione, magari modernariale, si concentra su un'interpretata trasformazione. 
Tale concezione intellettuale è il frutto di una lenta maturazione da parte dell'artista, il quale vi è giunto tramite diversi passaggi, come la giovanile pittura figurativa di genere, lo studio dei grandi artisti, che si è tradotto in un robusto ciclo di loro ritratti, l'utilizzo del collage accostato alla pittura, l'uso della tridimensionalità pittorica data dall'applicazione di oggetti sulla tela e gli accumulo a tuttotondo. Non va dimenticato che queste progressioni artistiche non provengono dai soli approfondimenti artistici, ma sono anche il prodotto di numerosi input derivanti sia dalle sue professioni, come, ad esempio, quella di terapeuta e di artigiano di maschere,  che dalla sua passione per le altre culture e popoli che egli ha conosciuto grazie a numerosi viaggi. Una sinergia biografica  in cui emergono la personalità, sensibile ed introspettiva, la cultura e la manualità dell'artista.
Questa evoluzione riflessiva proposta da Satiam ci induce quindi a meditare oltre le apparenze, travalicando gli schemi ed i preconcetti per cercare di carpire il nostro Io attraverso la rigenerazione del lato sensibile, liberandolo dalla contingenza e rivestendolo di nuovi significati. Si tratta di una sorta di resurrezione di oggetti e/o elementi naturali ritenuti socialmente e culturalmente morti, perché considerati immondizie e scarti, a cui l'artista infonde una nuova vita, e dunque nuova dignità, cosicché essi possano risuscitare, o suscitare, le sopite ed inconsce emozioni dell'essere umano. Tale ripescaggio storico non solo tramuta gli oggetti oramai inanimati in qualcosa di vitale, ma li addensa di valenze simboliche che hanno il compito sia di far riflettere lo spettatore che di indurlo anche ad evadere mentalmente. Infatti, gli elementi naturali, come sassi, foglie e conchiglie, oppure antropici, come oggetti di uso quotidiano o rimasugli di prodotti industriali scartati, si tramutano in allegorie dirette, ovvero comprensibili, o indirette, cioè più criptiche, che l'artista accosta creando delle variegate, eterogenee ed equilibrate agglomerazioni. La  dimensione esemplare di questi accumuli dai tratti tridimensionali è poi arricchita anche dai contenitori in cui essi sono inseriti: le scatole. Queste ultime hanno la funzione di isolare gli  oggetti/elementi dal luogo circostante in cui originariamente si trovavano, ed in cui si davano per scontati, ed inserirli in un nuovo spazio ideale ed atemporale che ne aumenta il dato sia visivo che percettivo e perciò riflessivo. Queste opere sono da intendersi come la summa dei rimandi biografici di Satiam, degli interessi culturali e degli aneddoti di vita, derivati dai viaggi, delle frequentazioni e delle esperienze culturali e religiose, come si intuisce osservando, ad esempio, le iconografie appartenenti ad altre credenze o tratti di pigmento nero che rimandano ad autoctone spiritualità. E molto spesso le opere rievocano persino le ironiche ponderazioni che l'artista compie in merito ad eventi che lo hanno colpito in prima persona o che rimbalzano  agli altari della cronaca globale.
Ma non è tutto. Queste agglomerazioni per Satiam si trasformano anche in epigoni di arteterapia:  l'impegno intellettuale e la manualità esecutiva che richiedono le trasformano in un mezzo curativo per l'artista stesso, in quanto, mentre le costruisce, lo aiutano a rigenerarsi dal suo lavoro ed a riacquistare l'equilibrio interiore.
E' chiaro che queste opere, sebbene complesse sotto molti punti di vista, non sono il traguardo della poetica di Satiam, ma si trasformano in basi per ulteriori sperimentazioni della sua creatività artistica e della sua intellettualità, tanto da divenire, come afferma egli stesso, “...un'espressione di verità poliedrica, in costante cambiamento, in costante evoluzione” volta alla comprensione, e perciò alla crescita, delle realtà sia minute, intime e personali che  collettive ed universali.

Franco Donati

E' facile, quando si osserva un'opera calcografica, cadere nell'equivoco percettivo di contemplarla solo sotto il profilo visivo, magari soffermandosi unicamente sulle corrispondenze mimetiche dell'immagine, rimanendo affascinati dalla super-artigianalità e tralasciando la dimensione sensibile che questa evidenzia prepotentemente. Affermo questo perché il virtuosismo tecnico non si può ritenere e considerare il fine supremo dell'incisione, bensì il mezzo espressivo, da coltivare ed ampliare sempre, che permette di  rappresentare visivamente all'unisono sia la pregnanza del soggetto sia l'anima ed i pensieri dell'artista. Se ciò non accadesse, l'incisione diverrebbe cesello sopraffino, ridondante manierismo, esasperazione virtuosa, ma rimarrebbe solamente un prodotto  debordante verso l'artistico artigianato, magari decorativo, come sembra apparire da certe recensioni in cui è contemplato solamente il segno, come se questo fosse l'unico carattere distintivo dell'incisore. La calcografia, quando è arte, non può solamente “apparire” ( immagine), ma, prima di tutto, deve “essere” (vera idea): solo così il segno incisorio si tramuta da solo atto esecutivo in manifestazione dell'intellettualità  e della personalità di un artista nonché  testimonianza dell'evoluzione del genere umano. Dunque l'essere in ambito artistico si sostanzia di un amalgama composto di biografia, interiorità, intellettualità, ricerca, sperimentazione, studio, spirito di osservazione, apertura mentale e capacità. E Franco Donati manifesta queste caratteristiche. Infatti egli intende l'arte come una vitalistica azione quotidiana che lo porta sempre a ricercare e perciò ad evolversi. Un atto quindi, interpretando le parole di Ralph Waldo Emerson, foriero di positiva creatività che soddisfa quel desiderio di essere un tutt'uno con la natura e la realtà, di sentirsi in armonia nel proprio privato e con l'ordine sociale nonché di avere la capacità di  oltrepassare i propri limiti: insomma avere fiducia in sé e nelle proprie capacità. Questo affrontare la vita con "self-reliance" (fiducia in sé), genera in Donati un ottimismo realista che gli permette di raggiungere i suoi obiettivi anche partendo da una circostanza talvolta negativa. Partendo da questi presupposti, l'artista attribuisce quindi all'arte la funzione di scandagliare la sua interiorità cercando di carpirla per poi decodificarla attraverso un surrogato concreto. L'arte quindi diviene un viatico con il quale egli può osservare  i sentimenti, le sensazioni ed i  desideri prodotti dal suo pensiero. E' chiaro che per fare ciò, Donati si allontana dalla roboante retorica, per concentrarsi su una modalità introspettiva, quasi dimessa, colloquiale e, per renderla più fascinosa, dal piglio simbolico. Ecco perché i suoi soggetti, a prescindere dalla rappresentazione esteriore, in ultima analisi celano, con sfumature variegate e romantiche, l'artista stesso, stabilendo così una nascosta similitudine tra il suo io e l'immagine raffigurata. Questo accade in quanto i riverberi provocati dai moti sia del suo mondo interiore sia di quello esteriore  sulla sua biografia sensibile sono il vero soggetto ideale dell'artista: paesaggi, nature morte e ritratti traslano le loro evidenze visive per divenire megafoni del suo recondito spirito. Per rendersi conto di questa trasposizione del suo io all'interno dell'immagine,  basta guardare le opere con occhi liberi, per scorgere come le rappresentazioni allusive e spesso surreali dei sui soggetti raffigurati, lo sfondo privo di riferimenti spaziali e storici nel quale è inserito un corollario di  segni/simboli per capire che esse altro non sono che manifestazione allusiva dell'introspettività ispirata di Donati d'innanzi alle cose del mondo che attraversano la sua vita. Tenendo conto di quanto afferma egli stesso nella frase: “L'acquaforte è la prima scrittura, l'acquatinta e la marmorizzazione sono la parte pittorica dell'opera, la puntasecca finale eseguita a mano o con un elettroutensile, sono i neri assoluti che danno rilievo, danno voce al segno dell'acquaforte.”, si può dire che la calcografia è il mezzo tecnico ed esecutivo da lui individuato per iconizzare queste sue  sopracitate istanze interiori. Evocando la scrittura come primo atto creativo, sembra che il tentativo dell'artista sia quello di decodificare ciò che sente e prova. Sarebbe ingannevole fermarci solamente a questo solo dato oggettivo, perché Donati non vuole offrirci un unico punto di vista,  ma, attribuendo all'opera, in base anche all'apparato di immagini, un carattere argomentativo, desidera che ognuno di noi possa individuare una sua idea. Come nella poesia, l'incisione in funzione collettiva diviene segno corale dell'uomo.

Antonio Del Donno

         
    Se dovessimo classificare l'Arte, soprattutto quella contemporanea così multiforme, la potremmo inserire, seguendo una traccia aristotelica, all'interno di tre sostanziali categorie: la prima intimista, la seconda sperimentalista e la terza sociale o sociologica. Subito, però, ci accorgeremmo che queste tipologie non sono a compartimenti stagni, ma fra di loro si possono intersecare, sovrapporre e aggregare. Ciò avviene perché gli artisti, secondo le volontà e le necessità interiori o pratiche, decidono di far prevalere l'una sull'altra oppure le fondono in un costrutto amalgama. E osservando le opere del maestro Antonio Del Donno si comprende come egli persegua proprio quest'ultima modalità, tramite la quale, però, l'artista sente il bisogno di infondere nei suoi lavori un rimando all'attualità, tanto che potremmo palare di “attualismo deldonniano”, facendo emergere in tal modo da questa unione una latenza e una propensione verso istanze sociali.
        Allora si comprende come per Del Donno l'arte sia l'unico vero mezzo che permetta la ricostruzione dell'identità umana, che dunque diviene il soggetto ideale del suo fare artistico. In questa epoca fluida, come afferma Z. Bauman, nella quale l'uomo ha perso i suoi riferimenti morali e culturali,  l'artista, esaltando le critiche alla società e scagliandosi contro le negatività attuali, le miserie della vita quotidiana e false mode che portano all'omologazione, vuole riscattare la società per far sì che si possa ritrovare la perduta concretezza.
            Del Donno dunque ha concepito l'opera d'arte sul piano teorico come viatico creativo che gli ha permesso di essere libero da ogni costrizione ed impedimento e capace di generare una pulsione ed una forza tali da indurre alla comprensione ed alla ponderazione lo spettatore. Egli ha così creato un personale mezzo espressivo, tra cui spiccano metafore ed allegorie che lo hanno portato, da un lato, ad iconizzare sia bidimensionalmente che tridimensiolmanlente (giungendo  talvolta alle grandi dimensioni delle installazioni) i suoi pensieri e le sue riflessioni più interne su un determinato soggetto ideale o tema contemporaneo, dall'altro, a coinvolgere lo spettatore nel processo attraverso il quale egli fa emergere in lui la propria conoscenza nascosta o sopita.
            Infatti l'artista grazie alle metafore, intese come un trasferimento di significato o sostituzione di essenza, mira a stupire lo spettatore con immagini dalla forte carica espressiva ed emotiva,  mentre usando le allegorie, in cui qualcosa di astratto viene espresso attraverso un'immagine concreta, cerca di indirizzarlo verso interpretazioni razionali di ciò che è sottinteso nell'opera.
            E così come la società odierna è priva di punti fermi, Del Donno per realizzare queste sue istanze intellettuali non si è fossilizzato su una sola modalità espressiva ed esecutiva, ma si è servito di una strutturata progettualità mentale, supportata da una consistente artigianalità costruttiva, unitamente ad un variegato uso di tecniche, materiali e supporti, che gli ha permesso di far trionfare la funzionalità necessaria sulla sola e costringente estetica (sia visiva che contenutistica), e di sentirsi libero di ricercare e di sperimentare. Egli ha creato dunque una personale maniera di creare  le opere, le quali appaiono sempre attuali ed intrise di armonia ed equilibrio anche quando si presentano volutamente percorse da crasi e contrasti visivi. Non c'è da stupirsi dunque se i lavori di Del Donno sembrano apparenti sfondi teatrali in cui materiali di uso comune - come vetro, legno, metallo, plastica – o figure geometriche, dalle valenze simboliche, spesso debordanti in accenni architettonici, campiture o squarci di colori dal timbro espressionista,  o ancora fotografie, collage, scritte sono sapientemente fusi, accostati, modificati e sovrapposti fra loro per dar vita  ad un solo spazio addensato di pensieri ed impulsi.
            Basta quindi osservare un'opera di Del Donno per capire che ci si trova d'innanzi ad un artista che non si può ascrivere ad una sola categoria esecutiva/creativa, anzi, ogni qualvolta si individuano nei suoi lavori rimandi allo spazialismo, all'astrattismo nonché al simbolismo, li comprendiamo solo in parte. Egli compone un unicum denso di idee, di atteggiamenti, di ironie, di emozioni, di sensazioni e di intenzioni che attrae ed affascina lo spettatore, inducendolo ad una interazione istintiva e cognitiva così forte che favorisce in lui pregne valenze.