lunedì 14 aprile 2014

Giancarlo Novello

E' oramai da qualche anno che conosco il maestro Giancarlo Novello ed i nostri incontri sono sempre avvenuti durante i chiassosi momenti che precedevano, o concludevano, le inaugurazioni di mostre collettive. Ma durante una vernissage dicembrina a Jesolo, l’artista mi invitò a fargli visita nel suo studio. Sono sempre stato un sostenitore della teoria, vista anche la mia esperienza televisiva, secondo la quale per espandere la conoscenza dell'operato di un artista, bisogna sapersi soffermare ad osservare anche gli aspetti più reconditi o quotidiani, ma oltremodo sensibili, che si possono riscontrare solo negli spazi privati dove egli crea. Così quando Novello mi propose di andare nel suo studio, accettai di buon grado. Una gelida mattinata d'inverno partii alla volta di Jesolo Lido. Giunto in città, imboccai una deserta e desolata via Bafile, dirigendomi verso il faro. Arrivato all'ultima piazza, svoltai per immettermi in una parallela della “rambla” jesolana e proseguii. Ad un tratto scorsi un anonimo e cupo palazzo, figlio delle architetture della seconda metà del Novecento. Parcheggiata l’auto, mi misi alla ricerca dello studio. Non fu difficile trovarlo. Sul lato destro, prospiciente la strada, si scorgevano delle vetrate dalle quali si potevano vedere quadri, sculture ed altri lavori d'arte. Giunto all'entrata, inizialmente non feci particolarmente caso a ciò che vedevo e bussai alla porta. Fino a quel momento, avevo avuto l'occasione di visitare parecchi studi d'artista e molti di essi, per esempio quello di Oddino Guarnieri che sembrava una scatola di colore, mi avevano colpito ed entusiasmato. Ma nel momento in cui aprii la porta, un po' rigida da spingere, e mi inerpicai su una improvvisata scala di legno, aggrappandomi ad un precario corrimano, mi trovai d’innanzi ad una realtà parallela al mondo reale: un amalgama artistico confusionario, ma allo steso tempo pregno, fatto di innumerevoli quadri, grandi e piccoli, pittosculture, statue, resti di sculture, barattoli di stucco, tubetti di pigmento, pennelli, spatole, carte, telai, cornici e molto altro ancora. Su tutto troneggiava, seduto e rannicchiato su una seggiola, proprio lui, il maestro Novello, intento a spatolare un’ulteriore opera. L’atmosfera si percepiva in modo molto forte e denso: essa era intrisa di colore, anzi di un turbine di colori veneziani, o meglio, “buranelli”, fatto di tonalismi, campiture, virgolettate, visioni, emozioni, sensazioni, vibrazioni e suggestioni lagunari.
Iniziammo subito a parlare d’arte. Durante la discussione, si palesò tutta la conoscenza e la densità intellettuale ed artistica di Novello. A un certo punto il dialogo si focalizzò sul concetto di arte, ed io chiesi all’artista di darmi una sua definizione del significato di tale parola. Egli non mi diede una risposta concettuale, ma affermò di aver avuto solo la fortuna di essere nato dentro un limo artistico che, durante la prima metà del secolo scorso, aveva trasformato la piccola, territorialmente parlando, isola di Burano in un grande, sul piano intellettuale, luogo fecondo per il sapere, perché frequentato da artisti e uomini di cultura, i quali gli avevano permesso fin da bambino di vivere in mezzo all’arte. E una di queste personalità è stato proprio lo zio, Francesco Trevisani, pittore e decoratore, che lo prese, come garzone, a bottega e gli insegnò il mestiere.
 Dalle considerazioni emerse in questo nostro primo incontro, e anche in quelli avvenuti successivamente, tenendo conto della fortuita fatalità di essersi trovato al posto giusto ed al momento giusto, nonché delle vicissitudini che hanno segnato la sua vita, si comprende l’importanza della componente biografica nell’operare artistico di Novello e come questa lo ha sempre contraddistinto col passare del tempo. Alla luce di quanto scritto, e tenendo presente che, come afferma l’artista “…la pittura non è un fatto unico…”, credo sia possibile argomentare sulla sua opera attraverso un’esposizione cronologica, per altro non del tutto esaustiva vista la mole di opere realizzate, del suo lavoro.
Pertanto è significativo ricordare che, dopo l’iniziale momento giovanile della formazione, Novello entrò nel variopinto e spumeggiante mondo dell’arte della città lagunare, partecipando a numerose mostre, ed affermandosi come pittore figurativo intriso della sicura tradizione veneziana e di intimismo. Trascorrendo momenti felici, gioiosi e divertenti, amava dipingere immerso nella natura.
Passarono gli anni ed il pittore, sebbene continuava a dipingere alla vecchia maniera, sospinto dalla curiosità, continuò a ricercare per imparare tecniche nuove che lo affinassero e lo rendessero più versatile se non, a volte, sperimentale. Sulla scorta di tali studi, e di nuove esigenze sia interiori che intellettuali, egli inaugurò un parallelo percorso imperniato sulla pittura astratta dai tratti espressionisti, per evadere dall’affascinante realismo ed indagare liberamente, infrangendo le forme, le emozioni e successivamente decodificarle con il colore.  
            A causa poi di un periodo cupo della sua vita, l’artista subì un momento di blocco creativo e la sua ispirazione sembrava scomparsa, tanto che smise di dipingere. Ma l’avvicinamento allo studio delle vite di artisti conclamati, quali De Chirico, Renoir ed altri,  lo stimolava e lo influenzava a tal punto che riuscì a rimettersi in moto e superare lo smarrimento, imprimendo addirittura un’accelerazione alla sua euresi.
Con rinnovato entusiasmo e sospinto da mutate istanze artistiche, e forse per creare un legame tra il vecchio Novello e quello nuovo, sentì la necessità di far convivere in modo dicotomico il ricordo sereno della rappresentazione della natura con l’evasione sentimentale da essa, interpretata dal libero colore, accostando sullo stesso supporto bidimensionale della tela il figurativo con l’astratto. Successivamente tale dicotomia a cavallo tra passato e futuro, venne ulteriormente incrementata di un altro aspetto: quello diaristico. Con quest’ultimo arricchimento, il pittore volle sedimentare giorno dopo giorno ciò che viveva e gli accadeva, accentuando in tal modo la dimensione biografica. Su questa singolare forma di libro costruito su quadro, Novello scriveva, con il colore, come una sorta di amanuense, le antiche, realistiche, e le nuove, astratte, pagine della sua vita. Ma non è tutto. Questa sorta di pittoscultura si evolse ed inaugurò una nuova fase creativa: sul lato della pagina informale, il pittore collocava una sorta di scultura, fatta di tela irrigidita, che chiamava “Anima”, la quale, con i suoi pieni e vuoti, oltre ad aumentare la tridimensionalità, voleva rammentare ancora più prepotentemente l’aspetto biografico, esorcizzando un particolare e triste momento trascorso.
Ultimamente, superato anche tale frangente artistico, Novello, sebbene continui a colorare anime, sospinto sempre dalla sua irrefrenabile curiosità, ha inaugurato un nuovo dualistico stadio creativo-biografico. Egli infatti ha sentito la necessità, da un lato, di far sintesi di tutto quello che ha indagato in passato, iniziando a far “sfiorire” la pagina astratta, per rivestire con altri significati le sue emozioni, dall’altro, di inserirsi nella scia dell’Optical Art, creando nuove opere, fatte di squarci di colori dipinti su cerchi sovrapposti, che girano spinti dall’osservatore, facendo emergere così anche il dato sensoriale.

Concludendo, non posso non ricordare il fatto che Novello ha praticato, e tuttora continua,  anche la scultura. Essa è da lui usata non solo per concretizzare un soggetto, ma anche per indagare i concetti di forma e tridimensionalità. E per realizzare tali lavori, l’artista si è servito sia del realismo, del simbolismo, che della loro fusione, creando opere che rimandano all’ambiente lagunare (come, ad esempio, i rematori su barca), ad una natura simbolica (si vedano i grandi animali) e alla metafora (come il grande angelo-tronco, composto interamente da una miriade di “anime”) quasi tutti spruzzati da quel suo vibrante colore che gli rammenta sempre la sua Burano.

lunedì 7 aprile 2014

Ana Celtran Beltran

In molti testi critici per illustrare la poetica di un artista, ci si sofferma maggiormente sulla trattazione delle sue opere, descrivendole e contestualizzandole in modo approfondito, col rischio però di evidenziare principalmente, relativamente alla generazione dell’opera, gli effetti piuttosto che le cause intrinseche all’artista stesso. Oppure, talvolta, si compiono, seppur interessanti, voli pindarici tesi a collocare il tal pittore in un determinato movimento o ad accostarlo al maestro famoso, evitando tuttavia di soffermarsi approfonditamente sul suo Io creativo. Secondo tali modalità critiche, sebbene si riesca comunque a delineare l’operato di un artista, spesso si tralascia di far emergere il processo creativo, la sua filosofia artistica e le sue motivazioni interiori ed intellettuali.
Questo scritto non ha perciò l’intenzione di disertare sulla personale visione antropocentrica e filantropica che si evince guardando le sculture di Ana, nelle quali, la mimesi figurale, intesa come idea di natura, è immersa in un’atmosfera simbolica dai tratteggi stilizzati, bensì di cercare di far emergere le motivazioni e le attuazioni, a livello interiore, che sostanziano in modo costante e continuo  l'esecuzione dei suoi lavori. Dunque mi avvarrò, di una modalità didascalica frutto di una mia rielaborazione ponderata delle discussioni avute durante alcuni incontri informali, presso la galleria L. Sturzo a Mestre, tra me e l’artista stessa, tesa a far emergere alcuni punti focali della sua creatività, ed inizierò, come primo punto, proprio dalla definizione che lei dà dell’idea di Arte. Quest’ultimo concetto è per Ana da intendersi, prima di tutto, come un momento di vita interiore, pertinente alle emozioni, libero da qualsiasi (auto-) inganno e (auto-) falsità in ambito artistico, e anche morale, che l’artista sente la necessità di esprimere attraverso un mezzo di comunicazione visivo, concreto e diretto, costruito tramite parametri di conoscenza, cultura, abilità tecnica e “consapevolezza dei materiali” per se stessa e gli altri. E per evitare che il messaggio veicolato sia espresso male, perché non sincero, confuso o, addirittura, incompreso, esso deve essere capace di  mostrare un significato riconosciuto e condiviso, a livello subconsciale, da tutti. Con tali basi concettuali, l’artista non può che essere cosciente del progetto generativo ed in grado di giungere ad un risultato il quale, una volta plasmato nella materia, sia, allo stesso tempo, sublime nel concetto ed essenziale nelle forme.
Da queste argomentazioni deriva il concetto di finalità dell’arte, da intuirsi come una necessità intimistica ed interiorizzata rivolta a toccare celatamente le corde spirituali, morali, intellettuali ed estetiche dell’animo umano. In tal modo l’opera si trasforma in una visione aperta atta a riverberare le componenti di cui è frutto: esperienza, storia, biografia. Ma non è tutto. Tali elementi si trasformano poi in principi costituenti la conclusione tangibile di una  prassi creativa interiore che porta alla realizzazione della scultura. Tale percorso  inizia con la comparsa delle  idee, da desumersi come armonico connubio di emozioni e quesiti sull'universale, nel cuore dell’artista, le quali poi transitano nella sua mente dove si ordinano sul piano sensoriale per catalizzarsi un una visione antropomorfa dalle valenze simboliche assolute e composta di pura tridimensionalità la quale sembra muoversi da sempre in uno spazio e in un  tempo virtuali. Successivamente tale concezione oramai meditata dall’interiorità della scultrice, attraverso le mani, si tramuterà in sostanziale e tangibile soggetto: un corpo umano. Quest’ultimo per l’artista è concepito quale rappresentazione teorica di un archetipo in grado di avvicinarsi ad un concetto generale e totalizzante di essere umano, perché proteso a manifestarsi in infiniti, ma sempre affascinanti, modi del suo essere. Ciò è confermato anche dal fatto che le figure, per assumere una dimensione concettuale, quasi vicina ad uno stato d’animo, hanno perso quei particolari anatomici, quali la sessualità e la definizione dei volti (usati dall’artista solo quando è necessaria un’ulteriore valenza estetica),  che altrimenti le ancorerebbero alla concretezza fisica e realistica.

            Concludendo, ritengo un evento positivo il fatto che Ana per migliorare ulteriormente le sue già vaste conoscenze sul corpo umano, e capire di esso l’organicità e le armonie, abbia deciso di studiare anatomia presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia ed successivamente voluto risiedere stabilmente nella città lagunare. In tal modo il pubblico veneziano potrà conoscere le sue opere, ma, soprattutto, arricchirsi culturalmente con gli esiti futuri, e forse indirizzati verso una visione astratta, della sua scultura.