domenica 29 marzo 2020

Giuseppe Fogale

Il paesaggismo, nel corso della storia della pittura, è una delle modalità espressive più espressive. Assieme al figurativo, legato alla rappresentazione della figura, il paesaggio ha  permesso all'artista di rappresentare vivamente quell'universo di emozioni, stati d'animo e riflessioni  che albergavano nel suo Io più recondito. E per rendersi conto di questo, basta osservare, accostati,  accanto l'uno all'altro,  uno scorcio romantico e una visione iperrealista. Entrambi, pur agli antipodi sul piano iconico, ci mostrano quanto può essere ampio il ventaglio dell'intenzionalità creativo-ideale presente nella mente di un pittore. 
Anche l'opera di Giuseppe Fogale non può non inserirsi all'interno di questa gamma di modalità rappresentative. Egli infatti si protende verso il paesaggio secondo la classica maniera all'italiana, in chiave  romantica: ogni sua tela si presenta luminosa, gradevole, caratterizzata da un pittoresco accogliente e piacevole, intrisa di ricordi e atmosfere sensibili che fanno emergere sensazioni felici nello spettatore; non solo, nei suoi lavori si respirano anche le arie e i colori delle stagioni che caratterizzano lo scorrere dell'anno. Ma oltre queste caratteristiche, che potremmo definire per alcuni aspetti oggettive, emergono anche quelle peculiarità soggettive che rendono unica e personale la pittura di Giuseppe Fogale. Egli infatti infonde ai suoi lavori una sorta di dato geografico che, oltre ad accompagnare l'afflato emozionale e la dimensione intimistica, rappresenta e identifica in modo contestualizzato uno scorcio che appartiene alla quotidianità e al vissuto del pittore stesso. Ciò è confermato anche dalla cura dei particolari che caratterizzano ogni dato posto, come testimoniano la dettagliata rappresentazione delle specificità persino geologiche dei diversi gretti in cui scorre l'acqua, le tipologie di piante che adornano gli argini o, nel caso di vedute collinari, le rappresentazioni di vecchi casolari e edifici tipici nonché l'increspatura e l'inclinazione delle colline! Ma non è tutto. Anche la captazione della luce e la modalità con cui viene distesa e dosata all'alterno del dipinto, sottolinea l'unicità del luogo, come si evince confrontando, ad esempio, le diverse percezioni atmosferiche presenti nella “Veduta di Chioggia”, dalla luce tersa, quasi opalescente, con il “Piccolo scorcio del Sile” dalle arie languide e silenziose. E osservando attentamente la pennellata, un tempo più crepitante e vibrata da piccoli tocchi e ora più fluida e sinuosa,  si  può intuire addirittura l'evoluzione tecnico-esecutiva dell'artista. 
I pini, i salici, le acacie, le acque, le rocce e i colori della terra, o sarebbe meglio dire ogni singolo elemento della natura, sono dunque, come direbbe G. D'Annunzio, stromenti nelle mani di Giuseppe Fogale che egli permettono di trasformarsi, interpretando l'opera di Franco Arminio, in uno speciale paesologo, il quale invita l'osservatore a “Incontrare e raccontare i paesi ed i luoghi, percepiti” e dunque ad immergersi e a farli propri.





Roberto Furlan

Le opere di Roberto Furlan sono da intendersi come una sorta di pagine di un diario biografico sul quale egli racconta le sue  elucubrazioni, fatti, e storie e che hanno colpito. A conferma di ciò, basta leggere i  titoli che egli appone alle sue opere tra i quali spiccano “Labirinto”, “Lievitazione”, “sotto Pelle”, “Germoliato” e “Ricami di mia madre”. Ma, come balza all'occhio osservando i suoi lavori, si comprende subito che questo diario composto da immagini, non è stato “ scritto” usando lo strumento classico del pennello e della rappresentazione realistica, bensì  sono create attraverso l'ausilio di una sua personale esecutività che si avvale della tecnica mista, tra cui spicca l'uso del tessuto, che origina delicate trasparenze fatte di luci e colori. Queste ultime divengono dunque il mezzo visivo, ma soprattutto ideale con cui l'artista crea le pagine di questo diario e sono da intendersi come una grafia personale che tocca le corde più profonde dell'anima del artista. 
Per comprendere al meglio le opere, vista la loro iconografia, di  Roberto Furlan non basta solo osservarle attentamente, ma bisogna, leggendo il titolo e interpretarle secondo  la  propria sensibilità.  Solo in questo mdo quelle particolari campiture di colore  inizieranno parlarci. Non bisogna quindi avere un approccio razionale, bensì emozionale fortemente interiorizzato, anche perché queste striscioline di luminoso pigmento non sono disposte in modo casuale, ma rispondono ad un ordine ideale e spirituale, frutto dell'incoscio dell'artista , che a volte sembra assumere  aspetti quasi modulari che si riscontrano in opere diverse.    

Lorella Bertuol

E' proprio vero che l'arte può riservare infinite e gradite sorprese. Essa infatti è come l'amore: ti colpisce quando meno te lo aspetti, senza tener conto dell'età o di nessun'altra cosa, facendoti provare emozioni e sensazioni “forti”. Ma c'è di più! Questo innamoramento è così intenso da portare con sé anche una sorta di carica taumaturgica spesso capace di alleviare anche i momenti più negativi della vita e di  donare la forza per andare sempre avanti. Ciò accade perché l'arte è così inferenziale alla biografia dell'artista da determinarne le azioni, le volontà e, spesso, il destino. Anche la vita di Lorella Bertuol si è incrociata con l'arte, sia sul piano umano che su quello ideale, tanto che le ha permesso di superare sul piano emotivo un periodo buio del suo vissuto e le ha fatto incontrare l'eclettica pittura di Giovanni Boldini, affascinandola letteralmente. L'amore per l'arte le ha quindi permesso di ritrovare l'allegria, la felicità, la gioia di vivere e il desiderio di fare. 
Grazie ad una personale interpretazione del colore, Lorella Bertuol è riuscita sia a concretizzare sulla tela questa positività che l'ha pervasa, sia a liberare la propria fantasia e la propria curiosità. Così facendo, la pittrice ha iniziato un lento percorso creativo, fino a ritornare indietro nel tempo all'età di quando era bambina in cui i ricordi, le esperienze e l'universo immaginario scatenavano in lei non solo l'immaginazione o il sogno, ma permeavano le cose più semplici e quotidiane di rimandi sensibili dai tratti simbolici. Non è un caso quindi che il soggetto ideale che guida la sua produzione pittorica, siano le sue damine. Queste ultime sono infatti da leggersi, oltre che come oggetto che ricorda la fanciullezza, quale materializzazione allegorica di uno stato d'animo interiore, da cui trapelano emozioni. E per avere conferma di ciò, basta osservare i grandi occhi delle damine che affascinano l'osservatore con il loro sguardo intenso, ammaliante, enigmatico e senza tempo nonché  l'uso di una pennellata dinamica, lunga, guizzante che accentua ancora di più questo senso di ritroso nel tempo, tanto che si respirano atmosfere dai tratti ottocenteschi.
Sulla scorta di quanto scritto poc'anzi, appare chiaro che l'intento della pittrice è quello di poter condividere con noi la possibilità di evadere dalla vita contemporanea, attanagliata  dalle  contraddizioni e dalle  negatività, per rifugiarsi in un mondo altro, fatto di sogni e ricordi nel quale possiamo rigenerarci, godere delle emozioni e, come afferma ella stessa, immaginare un mondo migliore

Lucia De Colle

Parlando con Lucia De Colle si comprende subito come per lei il percorso artistico non può essere disgiunto dalla biografia dell’artista. E per avere la conferma dell’importanza di questo legame, oltre alle sue parole, basta camminare tra le innumerevoli opere del suo studio. La sua carriera e, soprattutto, la sua creatività suono dunque il frutto, come afferma ella stessa, di “...esperienze personali cioè del proprio vissuto, emozioni, incontri importanti (di persone di valore), avvenimenti…”. Importanza capitale assume poi quanto scritto tra le parentesi: non basta conoscere e praticare artisti per mettersi a dipingere, bisogna che questi siamo artisti con la “A” maiuscola e perciò in grado di dialogare e trasmettere contenuti pregni, pena la perdita di tempo e l’inutilità creativa di chi li frequenta. E le tracce evidenti di queste fruttuose relazioni culturali intrattenute dall’artista sono da sempre presenti in ognuno dei suoi lavori. Questi ultimi infatti sono da intendersi non come un diario omogeneo, bensì come una composita e variegata miscellanea in cui ogni opera manifesta tangibilmente la sedimentazione degli input che hanno segnato l’evoluzione creativa dell'artista. E’ palese quindi, che per Lucia De Colle l’arte assuma una funzione conoscitiva ed esperienziale protesa a scandagliare il legame che si forma tra l’io dell’artista e la vita che lo circonda. La versatilità tecnica, il ricorso ai più disparati supporti e materiali e la varietà soggettuale presenti nei suoi lavori sono la conferma tangibile di come la carriera si muova in questa direzione analitica del suo vissuto. Ma non è tutto. Parallelamente a queste relazioni sul piano umano e a questi scambi artistici, Lucia De Colle ha usato la sua creatività per indagare l’uomo. Egli, infatti, è stato il soggetto ideale che fa da sfondo al suo operare. Anzi, è divenuto il mezzo simbolico che le ha permesso di indagare la realtà circostante sotto molteplici aspetti: umano, relazionale, religioso, culturale ed artistico. L’artista, forte anche delle sue conoscenze tecniche, ha creato una sua personale visione di questo uomo-simbolo che, trovandosi in bilico tra realismo e stilizzazione astratta, le permette di cogliere ed esprimere in modo ancora più pregno le sue istanze sia ideali che creative.
La mostra che si inaugurerà  presso la galleria “L. Sturzo” a Mestre offre l’occasione di comprendere come Lucia De Colle, sebbene sia un’artista dal piglio introspettivo, attraverso le sue opere desideri porsi in ascolto della realtà, nel tentativo di offrire all’osservatore il proprio punto di vista su ciò che la circonda.

Giampaolo Minotto

L’artista  Minotto è una bella sorpresa.  Inserito nel filone naturalista e post impressionista veneziana, prende ispirazione e spunto da quella bella schiera di artisti che a Venezia contava  personalità come Neno Mori, Carlo Dalla Zorza, Marco Novati , Seibezzi, Domestici e tanti altri attivi dagli anni trenta agli anni ottanta del Novecento. E’ una linea di espressione  artistica che a partire  dagli anni 50 in poi patì l’avvento delle avanguardie artistiche che, a parte l’esperienza futuristica , in Italia poterono prendere piede  solo a partire dal secondo dopoguerra.  Ma l’arte naturalistica non è mai morta. E molte sono le persone che hanno continuato a  produrre e amare comunque la pittura di paesaggio . Il tempo è galantuomo diceva l’adagio…e ora che siamo inoltrati nel 3° millennio capiamo quanta straordinaria umanità abbia potuto esprimersi comunque, superando i tempi delle ideologie, delle supposte rivoluzioni  con  semplicità, coltivando l’arte e la bellezza  con la pratica della pittura di paesaggio.
I soggetti preferiti da Minotto sono paesaggi, angoli di natura o di verde urbano scelti con  affetto, semplici soggetti, non eclatanti, rivelano i sentimenti dell’artista
Incline a trovare il bello non nei luoghi deputati, luoghi storici o di  meraviglia, dei quali la nostra regione eccelle,  eclatanti si ma un po’ scontati,  ma nei luoghi del quotidiano, quelli che l’artista vede e vive, che eleva, dei quali ci svela la segreta bellezza.  

La Fabbrica del Corpo

Finalmente la mostra itinerante dal titolo “La Fabbrica del Corpo” ha fatto tappa anche a Mestre. I girovaghi lavori di questo metaforico “Giro d’Italia” della cultura sono stati esposti presso la grande sala della galleria L. Sturzo. Ma non si sono vinte coppe, medaglie o altro, e neppure c’era il pubblico festaiolo, munito di girandole, delle grandi occasioni a presenziare all’arrivo, bensì all’inaugurazione erano presenti attente persone desiderose di comprendere quale messaggio si celasse dietro questo titolo così accattivante e come esso si rapportasse alle opere esposte. Infatti la tematica che collega tutta la mostra non si sostanzia, come si potrebbe pensare in modo equivoco ad un primo colpo d’occhio, sulla sola rappresentazione del corpo umano in chiave stilistica, bensì sull’interpretazione di esso quale mezzo per indagare la realtà. E per capire questo, è necessario partire proprio da una ulteriore interpretazione del titolo stesso. Bisogna infatti accostare sul piano lessicale, la parola “corpo” ai due sostantivi “costruzione” e “decostruzione” per entrare appieno nel senso della mostra. Queste due parole sono il motore che genera un dualismo interpretativo tale da spingere i pittori a realizzare le proprie opere. Ma non è tutto. Se si trasformano i due sostantivi in verbi, “costruire” e “decostruire”, c’è ancora qualcos'altro di importante che emerge: la volontà di azione da parte dell’uomo.  Infatti quest'ultimo, quando ha l'intento ed il proposito di costruire qualcosa, riesce ad esprimersi tramite la fabbricazione materiale di un'opera d'arte; invece quando l'essere umano si atteggia a divinità, trionfa la decostruzione del mondo e perciò di se stesso. 
La mostra dipana dunque visivamente questa divisione tra positivo e negativo, inerente il concetto di corpo-uomo contenuto nel titolo. In questo senso, la propensione al fare, intervenendo sulla realtà al fine di costruire cose, aumenta la valenza del lato buono dell’uomo, tanto da generare  quasi una fabrica rinascimentale, come ai tempi di Leonardo o Michelangelo. In questo senso l'agire umano infatti è dunque da intuirsi come un corpo vivo che si concretizza nel plasmare comune. L’uomo, oramai conscio di essere centro e misura del mondo, grazie all’uso dell’arte e della scienza, in simbiosi con se stesso e con la natura, produce e costruisce gli edifici-spazi che vive ed usa, dando vita ad una positiva relazione di corrispondenze in cui si intersecano piani ideali e reali con dimensioni interiori ed esteriori, dove regnano armonia, simmetria e perfezione, come si evince guardando in modo traslato il celeberrimo “Uomo di Vitruvio”. Perciò l’uomo è da concepirsi come ente creatore, che, attraverso l’arte intesa come luogo-mezzo di ponderazione, concretizza attraverso il fare ed il produrre costrutti tangibili e concreti sul piano sociale e storico. 
Ma quando la parola corpo viene accostata al verbo “decostruire”, essa entra in netta antitesi con il concetto stesso di “fabbrica rinascimentale” in quanto il suo valore positivo è distrutto dalla potenza devastatrice della deprivazione, del nonsenso e dello svuotamento. Tale violenza è così inesorabile da abbattersi anche sul sostantivo “corpo” che, a causa del prefisso privativo “de”, rimane annichilito, svilito e distrutto. Guardando i lavori esposti, infatti si percepisce che siamo entrati nella parte buia della sopracitata dicotomia rappresentata in questa mostra. Dunque il privativo “de”, che implica una sottrazione o una privazione, attua sul corpo una negatività tale da disgregare la perfezione raggiunta dall’uomo proiettandolo verso un ineluttabile, e spesso tragico, destino. E nel Novecento il momento più devastante in cui l’uomo ha attuato questa terrificante decostruzione contro se stesso è stato il lancio di “little boy”, letteralmente “piccolo ragazzo”, ovvero il paradossale e infausto nome della bomba atomica sganciata su Hiroshima.   Ma l’ordigno atomico oltre ad essere il massimo esempio di destrutturazione dell'essere umano, degli animali e della natura, ha dato il via anche all'epoca della guerra fredda in cui l'umanità è stata costretta a vivere per lungo tempo sotto la minaccia di altre rovinose e catastrofiche destrutturazioni, capaci, come dice F. Guccini in “L’atomica cinese” di “...coprire un continente, correre verso il mare; coprire il cielo fino al punto dove l'occhio può guardare….”. Ma proprio nelle macerie della città nipponica, come si evince nella seconda parte dell'esposizione, si può intravedere una speranza perché l’uomo non può, per sua fortuna, fermarsi mai, deve riprendere a vivere e, traccia dopo traccia, deve puntare prima al ripristino della capacità costruttiva di se stesso e poi della realtà che lo circonda.
I tre artisti in esposizione, Elena De Rocco, Franco Giuliano e Bruno Tonolo, con le loro stilizzazioni, espressioni personali e specifiche tecniche esecutive hanno dunque creato un percorso visivo in grado di esprimere una dimensione manichea dell’uomo, in cui il bene, rappresentato metaforicamente dalla costruzione ai tempi della fabbrica rinascimentale, e il male, identificato nella decostruzione causata dalla distruzione, si palesano tanto megafonicamente da indurre quindi lo spettatore ad una riflessione sul proprio io di fronte alla necessità di mantenere vive libertà, democrazia e verità.   

Giovanni Giuliani

Giovanni Giuliani è senza dubbio uno dei capiscuola della calcografia italiana nella prima metà del 1900. A lui si deve non solo il traghettamento da un secolo all'altro dell'arte grafica, nobilitandola rispetto alla mera ripetitività a cui era relegata nel diciannovesimo secolo, ma anche il suo consolidamento in ambito accademico, trasformandola in vera disciplina artistica. Oltre a ciò, si deve a lui pure l'introduzione di contributi esecutivo-intellettuali provenienti da sue varie esperienze europee, come ad esempio quella di matrice olandese, che hanno arricchito, e in un certo senso aggiornato, l'incisione sia locale che nazionale.     
La sua carriera artistica, partita da Venezia, sua città natale, sotto l'iniziale guida di E. Brugnoli, si consolida nel tempo concretizzandosi su una personale concezione artistica, equidistante dalle melanconie del decadentismo, dalle esuberanti veemenze moderniste del futurismo (come testimoniano i vari manifesti del movimento) e dalla corrente artistica novecentista, in cui l'elemento sostanziale è la narrazione umana. Quest'ultima è intesa da Giuliani come strumento privilegiato per esporre l'uomo, la sua quotidianità, anche quella più minuta e intima, il suo agire e, in particolare, la sua laboriosità, sapendolo raccontare anche quando esso è soggetto interposto, cioè non rappresentato direttamente nelle incisioni ma solo percepito grazie al suo operato.
Artista politecnico, dotato di una grande capacità espressiva, grazie alle sue calcografie ha  presentato dunque un ventaglio di manifestazioni umane che vanno dall'apparente silenzio di alcuni scorci o interni veneziani, in cui solo si intuisce la presenza umana, alla brulicante vita quotidiana  che si respirava nelle feste popolari e carnevalesche dei campielli. Ma, come scritto poc'anzi, le sue opere mostrano anche il lavoro dell'uomo, raffigurato in tutti i suoi aspetti, sia quello degli umili o dei poveri, come si evince nelle raffigurazioni dei pescatori, che quello frastornante, frenetico, moderno e contemporaneo, descritto nelle intense tavole dedicate ai cantieri edilizi aperti nella città lagunare durante gli anni trenta del 1900. E per rafforzare maggiormente queste sue narrazioni, Giuliani ha adattato anche la tecnica esecutiva: a seconda della percezione della quiete o dell'operoso chiasso il segno passa da calmo, pacato e disteso a nervoso variegato e dalla forte vibrazione chiaroscurale, come si evince nell'intricato incrocio delle travature e degli assi presenti nelle tavole commissionate all'artista dal conte Volpi di Misurata. In queste ultime, peraltro, si sentono anche echi vicini sia alle fresie futuriste sia alle magnificenti prospettive del Piranesi.  
La preziosa azione in campo scolastico e artistico rende quindi Giovanni Giuliani un vero e proprio maestro dell'arte italiana, degno di essere storicizzato e ricordato. L'interessante mostra a lui dedicata presso la galleria “Luigi Sturzo” a Mestre va proprio in questa direzione: mostrare ancora una volta l'alto valore culturale dell'opera di Giovanni Giuliani.

sabato 28 marzo 2020

Alex Ghizea Ciobanu

A volte, in ambito artistico, per far comprendere la vera natura del reale al fruitore, la sola rappresentazione mimetica e diretta non basta. Forse perché questa realtà che viviamo la si dà per scontata, banale e poco incisiva. A volte, dunque, affinché il lavoro di un artista sia efficace sul piano sociale è necessario percorrere altre vie espressive. E' questo il caso di Alex Ghizea Ciobanu. Egli infatti, avvicinandosi ad una dimensione sociale, crede in un'arte che induca l'uomo a riflettere su se stesso e su ciò che lo circonda, ed in particolare sui rapporti fra le cose del mondo e sul legame positivo e indissolubile tra l'essere umano e natura. E per favorire tale pensiero si avvale di una personale concezione espressiva che si sostanzia sul surrealismo. 
L'artista ha dunque inserito nei suoi dipinti un universo di figure, uomini, animali e oggetti, arricchiti di simboli, metafore e similitudini visive, che si palesa in modo mediato stimolando quindi nell'osservatore il piacere di una graduale rivelazione del significato del soggetto, anziché la comprensione diretta e quindi poco stimolante sul piano della meditazione interiore. E per aumentare il fascino dell'opera e perciò il desiderio di scoperta,  il pittore ha curato in modo attento e sensibile tutti i particolari, anche quelli più minuti, definendoli, allo stesso tempo, sia in modo realistico che  allusivo.
Ciobanu punta dunque ad un soggetto che racchiuda in sé un'idea pregna e forte, impostata su una ricerca ben definita, capace di far breccia nel cuore e nella mente dello spettatore. Questo è confermato anche dall'inserimento di velati rimandi ironici, tesi a sottolineare i paradossi della realtà,  nonchè dalla presenza di echi biografici, composti da fatti e ricordi personali vissuti, che palesano le considerazioni e il punto di vista dell'artista. 
  L'ecletticità e la sensibilità che Ciobanu infonde nelle sue opere, sono i segni tangibili di come egli si impegni per offrire all'uomo d'oggi, perso nella frenesia e nel frastuono contemporanei,  momenti in cui possa riflettere su se stesso, non con gli occhi della fuorviante apparenza che sta in superficie, ma con quelli della dissimulazione in grado di far emergere la vera e profonda concretezza che si nasconde dietro le cose.

Quedim Bacci

Le opere di Quedim Bacci ci mostrano come sia da  interpretarsi come pagine di un metaforico diario nel quale ella catalizza per immagini ciò che le accade durante lo scorrere quotidiano della vita, le sue riflessioni in merito a ciò che l'attrae. Quindi l'arte per Quedim si trasfrma in un mezzo , quasi mediatico,  che e  permette di  concretizzare visivamente questo connubio  tra biografia e cultura. Quest'ultima per l'atista non è da intendersi solo come approfondimento nel campo artistico, ma come mezzo per ricercare, scrutare tra le pieghe del sapere concentrandosi, in particolar modo, su quello più inusuale e inconsueto, verso il quale prova una forte attrazione. Lo testimonia l'attenzione che ella rivolge al mondo onirico, esoterico e alchemico.  Non è u caso dunque che gli spunti  per le sue indagini e sue riflessioni  gli sono forniti, dalle letture di molti e affascinati autori, tra i quali spicca l'opera del filosofo esoterista René Guénon. 
     Le ricerche di Quedim Bacci si allontanano dal concetto di euresi classica, nella quale emerge la dimensione analitica,  per intraprendere un percorso conoscitivo caratterizzato  da tratti iniziatici che la portano a indagare temi quali la vita e la morte, i riti funebri e gli equilibri cosmici e dove ogni opera diviene una tappa sensibile del suo metaforico diario. 
    E per accentuare maggiormente questa sua attenzione verso questo conoscere non concezionale, e forse renderlo ancora più “esoterico”, Quedim Bacci  ha scelto la modalità esperiva dell'allegoria che lei ha pemesso di addensare di simbolismo i suoi soggetti. E' chiaro che queste opere si tramutano in un a sorta di visioni altre, nelle quali tutto è proteso a immagare, nel senso vero del termine, lo spettatore ed indurlo a riflettere sugli arcani della vita umana. Anche la tecniche esecutive non sono scelte dall'artista in modo casuale, esse infatti, oltre a dimostrare la sua ecletticità e la tua versatilità, sono funzionali per aumentare l'intensità della rappresentazione in modo da renderla stimolante non solo per lei stessa, ma anche per il subconscio di chi si lascia attrarre dai suoi lavori.

Lucja Agata Ograbek

Osservando le opere presenti nella mostra “Figurando non figurando” presso la galleria L. Sturzo a Mestre, si comprende come esse siano il frutto di un lungo percorso di crescita in ambito creativo che Lucja Agata Ograbek ha intrapreso sin da quando era bambina. L'esposizione infatti è stata strutturata secondo un ordine cronologico teso a sottolineare i due momenti momenti creativi  dell'opera della pittrice. Il primo, quello iniziale, guidato dalla volontà  di consolidare la sua capacità tecnico -espressiva  e la sua poetica i ambito artistico, presenta lavori realizzati all'epoca degli anni giovanili e durante la frequentazione dell'Accademia d'Arte della spumeggiante Cracovia  e impostati sulla figurazione intesa come mezzo di studio. Questo lungo periodo di formazione, ha maturato progressivamente nell'artista la necessità di spuriare  i suoi lavori  dalle “cose” superflue e dagli inutili orpelli per giungere sempre più in profondità verso la definizione dell'essenza primigenia del soggetto. Questa volontà ideale e creativa ha visto quindi la pittrice abbandonare progressivamente l'antica forma mimetica per giungere ad una personale concezione espressiva sostanziata dall'astrattismo. 
Gli anni del successivo soggiorno veneziano permettono a Lucja Agata Ograbek , che nel frattempo frequenta la locale Accademia di Belle Arti,  e gode delle proposte culturali della città lagunare, di consolidare la sua ricerca intellettuale, di sperimentare sul piano tecnico, materiale, strumentale ed esecutivo nuove possibilità creative. Infatti evolve la sua idea di astrattismo nel tentativo di poter infondere nelle sue opere  una dimensione che si protende verso l'assoluto, inteso non in termini religiosi, bensì come attività dell'Io e quindi come sommo atto creativo.  In  tal modo ogni sua opera, anche se scaturita da mondo del sogno mantiene sempre una funzione sensibile: quella di emozionare lo spettatore.  E questo lo si evince nei quadri che costituiscono il secondo periodo, quello della maturità,  presente mostra, nei quali si percepisce un'evoluzione del semplice paesaggio un una dimensione altra, della non figurazione, quasi sacrale e senza tempo,  scandita da sfumature  e velature del colore il cui incontro genera una evanescente linea dell'orizzonte, che tocca  le corde dell'anima e quindi sollecita lo spirito di chi le osserva.  
Lucja Agata Ograbek è quindi un 'artista eclettica, che, partendo protesa da una raffigurazione ispirata nella quale lo spazio concreto e tangibile del reale si è protesa verso la captazione  dell'essenziale capace di evocare  suggestioni, ricordi...in una parola emozioni... 

Daniela Turetta

Per Daniela Turetta l'arte è l'unico mezzo concreto che l'uomo ha a disposizione per elevare il proprio spirito dalla contingenza del reale, nonché per evadere dalla banalità e cercare di ritrovare quell'antico equilibrio che un tempo aveva stabilito con la natura. La pittrice, dunque, attraverso la sua creatività, cerca di togliere il superfluo e il negativo che circonda l'essere umano in modo che egli possa riacquistare la perduta consapevolezza   della propria essenza. I suoi paesaggi sono dunque da interpretarsi come viatico visivo per captare questa serena armonia che permea il creato e che oggi pare scomparsa. Le sue   raffigurazioni naturali, infatti, sebbene siano impostate secondo una modalità espressiva figurativa e dipinte con la tecnica dell'olio su tavola, sono intrise di un'atmosfera sospesa  che sembra far lievitare lo sguardo dell'osservatore dalla realtà contingente e farlo svolazzare, felice, nell'aria. Tale attrazione emotiva è generata dalla sapienziale esecutività di Daniela Turretta, la quale, grazie all'uso della prospettiva ribassata e del colore steso per velature, trasforma il suolo in una sorta di fascia colorata, a volte trapuntata sullo sfondo da picchi collinari, che si apre verso la maestosità del cielo il quale, a sua volta, fa da cornice al fluttuare  delle nuvole, al mutare dei colori del giorno e al divenire delle stagioni. Il cielo, le nuvole, la luce rarefatta e i colori della terra nonché questo senso di perpetuo movimento sono strettamente collegati con la quotidianità dell'artista. Essi sono la testimonianza tangibile e visiva dell'osservazione giornaliera e costante da parte di Daniela Turetta dei luoghi in cui ella vive e che, grazie alla sua sensibilità, trasforma ed ammanta di atmosfere sensibili capaci di generare amene sensazioni e riflessioni, sollecitando lo spirito e l'interiorità. 
L'artista quindi attraverso i suoi lavori offre all'osservatore una visione traslata che  lo induce a farsi affascinare dal paesaggio e, successivamente, a volgere lo sguardo verso l'alto e l'infinito, facendogli dimenticare in questo modo la frenesia contemporanea, il traffico e la confusione  per riempirgli il cuore di serenità e, come afferma ella stessa, fargli contemplare l'assoluto della bellezza taumaturgica, che solo la natura possiede.

Moreno Saivezzo

Guardando le “Venezie” di Antonio Moreno Saivezzo si rimane affascinati per la singolare  composizione visiva con cui egli tratteggia la città lagunare. Ciò avviene perché l'artista si avvale di un personale amalgama espressivo nel quale si palesano raffigurazioni dai tratti iperrealisti e affiorano suggestioni surrealiste, permettendogli di evadere dal dato oggettivo della realtà per debordare verso una percezione sensibile che fa emergere l'Io più intimo e recondito dell'artista. Tale visione quindi è protesa ad evadere dal dato oggettivo della realtà, per debordare verso una percezione sensibile e recondita in cui gli scorci, gli edifici, i palazzi, i campi, i ponti raffigurati parzialmente o nella loro interezza, unitamente a tutto l'universo simbolico, come la presenza di mani e/o lampadine al cui interno si vedono altre immagini, sono da interpretarsi come frammenti memoriali che testimoniano ricordi, fatti e riflessioni che appartengono al vissuto dell'infanzia e dell'adolescenza dell'artista. Ma c'è di più. Oltre all'afflato biografico dal ritroso memoriale, queste opere testimoniano anche lo sconfinato amore che Antonio Moreno Saivezzo prova per la sua amata e quanto mai fragile città. Egli la immagina ancora “Serenissima” e “Regina dei mari”, protetta dal mosso e burrascoso mare che la circonda. Questo infatti, primo fra gli elementi naturali, non è dunque da intendersi come pericolo, bensì come secolare baluardo posto a imperitura difesa della città dall'inesorabilità del tempo e dallo scempio degli uomini. L'acqua non salva solo i preziosi marmi e le antiche pietre del “Roseo gioiello” (da “Venezia Salva” di Simone Weil), ma lo trasforma metaforicamente in un'idea, un pensiero pregno nel quale sono cristallizzati anche i luoghi del cuore dell'artista. 
Nelle opere più recenti, la raffigurazione plurima delle riminiscenze memoriali, che, grazie al disegno e al colore, pervadeva tutta la tela, si è lentamente rarefatta: l'artista sembra condensare  l'immagine, ora generalmente impostata su flebili tratteggi di matita e poche campiture di pigmento,  per concentrarsi su poche ed essenziali idee e ricordi, che oltre a liberare gli spazi della  composizione e il respiro visivo concentrano il dato poetico e simbolico.
Lo scarto creativo ed ideale che si evince guardando i lavori contemporanei di Antonio Moreno Saivezzo mostrano come egli, pur rimanendo sempre fedele innamorato di Venezia, non sia un artista statico, ma capace, come l'arte richiede, pena la fossilizzazione, di declinare sempre la sua pittura verso affascinanti ed emozionanti traguardi interiori.

Vittorio Ruglioni

Basta scorrere un qualsiasi catalogo oppure osservare una singola opera di Vittorio Ruglioni per comprendere come il soggetto ideale della sua pittura sia l’uomo. Di quest’ultimo, l’artista non offre  una visione edulcorata, serena e positiva, bensì vuole svelarne i vizi e gli orrori, privati o collettivi, per mostrarli come in una sorta di esorcizzazione. E per capirlo basta ascoltare il poeta Mario Stefani quando parla “d'un io smarrito ...nell'infinito dell'universo; ...sei la breve caduta della memoria; ...ombra silente...non dici del mio dolore né della passione ...l'altro silenzio che ci attende”. 
Artista attento, raffinato e cosciente, Vittorio Ruglioni ha quindi creato una pittura in cui il realismo cede il passo a una visione dall’intento sociale ed educativo che punta dritta al puro concetto, all'essenza, libera di orpelli inutili, tendente ad una visione altra, densa, pregna, talvolta destabilizzante, truce e, addirittura, macabra, in cui l’uomo è oramai desolato testimone del suo disastro e del suo sradicamento. Il piglio emotivo e riflessivo delle opere è così forte da suscitare un  tumulto e un’inquietudine interiore in chi le guarda: lo spettatore, anche se il dipinto è pervaso dalla metafora, avverte subito l’assenza della psiche e dell’anima dell’essere umano. Tale perdita dell’io è così forte per Ruglioni che anche gli oggetti che circondano l’uomo, o che egli usa, ne sono una testimonianza, come si può ben vedere nella mostra a lui dedicata dal titolo “Melodia del Silenzio” presso la galleria “Luigi Sturzo” di Mestre. I malesseri dell’io sono sì presenti, ma interposti in quanto personificati dagli oggetti. Infatti nelle rappresentazioni delle sedie si evince come queste sembrano aspettare trepidanti qualcosa, o qualcuno, che è andato via o sta per tornare: ravvicinate le une alle altre, quasi per farsi coraggio, attendono strette la fine della loro angoscia. Le stesse immanenze si respirano osservando le nature morte: collocate in primo piano, talvolta rappresentate all’interno di uno strano spazio prospettico o collocate in una scena il cui sfondo è l’apparente viva Venezia, siano esse conchiglie, vasi, cocci e frutti fra di loro assortiti ed accostati, sono tutti in trepidazione di un divenire positivo. A guardar bene le rappresentazioni dei vasi in gruppo, si è addirittura pervasi dal senso di precarietà e smarrimento. Tali emozioni sono tanto intense da far venire in mente una citazione di manzoniana memoria: “Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima ancor quasi di toccar gli anni della discrezione, d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”. Nei cavalli a dondolo, invece, l’uomo ricorda la passata gioventù, rievocando il desiderio della felicità senza tempo.
Sebbene egli dipinga carne priva di spirito, contestualizzata in paradossali situazioni del reale, anche quando vuole essere incisivo, graffiante e talvolta crudo, Ruglioni non scade mai nel laido, nel grossolano e nell’inutile. Infatti l’opera appare greve e robusta allo stesso tempo, sospesa nel tempo e nello spazio, stranamente piatta, volutamente icastica, lontana dal perfettismo, in modo da evitare l’inganno dell’effetto estetico, mantenendo la pennellata sempre velata di atmosfera anche quando vibra. 
I suoi lavori sono dunque da intendersi come stralci di brani in cui i soggetti, pur urlando le loro angosce, formano, visti assieme, una silenziosa melodia che induce ad una paradossale tumultuosa  contemplazione. E ciò accade perché questa melodia non volge al requiem e all’ineluttabilità, in quanto, guardando attentamente i singoli lavori, si scorgono bagliori di speranza che si colgono lentamente. Ne sono prova il rimando al gioco, simbolo di felicità, del cavallo a dondolo, il colore latente nascosto sotto i grigi degli elementi lignei delle sedie o il bianco tonante dei fossili nelle nature morte che, generando vivi contrasti, inducono ad una interpretazione ironica se non vitalistica del dipinto.
In conclusione Ruglioni, tramite la sua pittura, ci induce dunque a riflettere sulla nostra condizione di inquietudine quotidiana, ma essa non è ineluttabile in quanto il pittore lascia sempre aperta una via di fuga.  D’altronde finché c’è vita, anche se dura, c’è speranza.