domenica 29 marzo 2020

La Fabbrica del Corpo

Finalmente la mostra itinerante dal titolo “La Fabbrica del Corpo” ha fatto tappa anche a Mestre. I girovaghi lavori di questo metaforico “Giro d’Italia” della cultura sono stati esposti presso la grande sala della galleria L. Sturzo. Ma non si sono vinte coppe, medaglie o altro, e neppure c’era il pubblico festaiolo, munito di girandole, delle grandi occasioni a presenziare all’arrivo, bensì all’inaugurazione erano presenti attente persone desiderose di comprendere quale messaggio si celasse dietro questo titolo così accattivante e come esso si rapportasse alle opere esposte. Infatti la tematica che collega tutta la mostra non si sostanzia, come si potrebbe pensare in modo equivoco ad un primo colpo d’occhio, sulla sola rappresentazione del corpo umano in chiave stilistica, bensì sull’interpretazione di esso quale mezzo per indagare la realtà. E per capire questo, è necessario partire proprio da una ulteriore interpretazione del titolo stesso. Bisogna infatti accostare sul piano lessicale, la parola “corpo” ai due sostantivi “costruzione” e “decostruzione” per entrare appieno nel senso della mostra. Queste due parole sono il motore che genera un dualismo interpretativo tale da spingere i pittori a realizzare le proprie opere. Ma non è tutto. Se si trasformano i due sostantivi in verbi, “costruire” e “decostruire”, c’è ancora qualcos'altro di importante che emerge: la volontà di azione da parte dell’uomo.  Infatti quest'ultimo, quando ha l'intento ed il proposito di costruire qualcosa, riesce ad esprimersi tramite la fabbricazione materiale di un'opera d'arte; invece quando l'essere umano si atteggia a divinità, trionfa la decostruzione del mondo e perciò di se stesso. 
La mostra dipana dunque visivamente questa divisione tra positivo e negativo, inerente il concetto di corpo-uomo contenuto nel titolo. In questo senso, la propensione al fare, intervenendo sulla realtà al fine di costruire cose, aumenta la valenza del lato buono dell’uomo, tanto da generare  quasi una fabrica rinascimentale, come ai tempi di Leonardo o Michelangelo. In questo senso l'agire umano infatti è dunque da intuirsi come un corpo vivo che si concretizza nel plasmare comune. L’uomo, oramai conscio di essere centro e misura del mondo, grazie all’uso dell’arte e della scienza, in simbiosi con se stesso e con la natura, produce e costruisce gli edifici-spazi che vive ed usa, dando vita ad una positiva relazione di corrispondenze in cui si intersecano piani ideali e reali con dimensioni interiori ed esteriori, dove regnano armonia, simmetria e perfezione, come si evince guardando in modo traslato il celeberrimo “Uomo di Vitruvio”. Perciò l’uomo è da concepirsi come ente creatore, che, attraverso l’arte intesa come luogo-mezzo di ponderazione, concretizza attraverso il fare ed il produrre costrutti tangibili e concreti sul piano sociale e storico. 
Ma quando la parola corpo viene accostata al verbo “decostruire”, essa entra in netta antitesi con il concetto stesso di “fabbrica rinascimentale” in quanto il suo valore positivo è distrutto dalla potenza devastatrice della deprivazione, del nonsenso e dello svuotamento. Tale violenza è così inesorabile da abbattersi anche sul sostantivo “corpo” che, a causa del prefisso privativo “de”, rimane annichilito, svilito e distrutto. Guardando i lavori esposti, infatti si percepisce che siamo entrati nella parte buia della sopracitata dicotomia rappresentata in questa mostra. Dunque il privativo “de”, che implica una sottrazione o una privazione, attua sul corpo una negatività tale da disgregare la perfezione raggiunta dall’uomo proiettandolo verso un ineluttabile, e spesso tragico, destino. E nel Novecento il momento più devastante in cui l’uomo ha attuato questa terrificante decostruzione contro se stesso è stato il lancio di “little boy”, letteralmente “piccolo ragazzo”, ovvero il paradossale e infausto nome della bomba atomica sganciata su Hiroshima.   Ma l’ordigno atomico oltre ad essere il massimo esempio di destrutturazione dell'essere umano, degli animali e della natura, ha dato il via anche all'epoca della guerra fredda in cui l'umanità è stata costretta a vivere per lungo tempo sotto la minaccia di altre rovinose e catastrofiche destrutturazioni, capaci, come dice F. Guccini in “L’atomica cinese” di “...coprire un continente, correre verso il mare; coprire il cielo fino al punto dove l'occhio può guardare….”. Ma proprio nelle macerie della città nipponica, come si evince nella seconda parte dell'esposizione, si può intravedere una speranza perché l’uomo non può, per sua fortuna, fermarsi mai, deve riprendere a vivere e, traccia dopo traccia, deve puntare prima al ripristino della capacità costruttiva di se stesso e poi della realtà che lo circonda.
I tre artisti in esposizione, Elena De Rocco, Franco Giuliano e Bruno Tonolo, con le loro stilizzazioni, espressioni personali e specifiche tecniche esecutive hanno dunque creato un percorso visivo in grado di esprimere una dimensione manichea dell’uomo, in cui il bene, rappresentato metaforicamente dalla costruzione ai tempi della fabbrica rinascimentale, e il male, identificato nella decostruzione causata dalla distruzione, si palesano tanto megafonicamente da indurre quindi lo spettatore ad una riflessione sul proprio io di fronte alla necessità di mantenere vive libertà, democrazia e verità.   

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