venerdì 1 aprile 2016

Tobia Ravà

Al Maestro Tobia Ravà dedico queste righe nella speranza di esprimere tutta la mia ammirazione ed emozione per il suo lavoro, tanto intenso sul piano artistico quanto complesso sul piano culturale. Tali mie riflessioni, ispirate da un'interessante colloquio precedente, certo non possono essere esaustive ma si possono ritenere come un breve vademecum per comprendere maggiormente il suo operato. 
Per Ravà l'arte è una modalità per esprimere il proprio percorso filosofico, nel quale la creatività è avvertita come mezzo per sondare il sapere. E questo suo viatico, come si può osservare palesemente nelle sue opere, è generato da un amalgama formato, da un lato, dall'analisi della mistica ebraica e, dall'altro, dalla cognizione del sapere occidentale. Questa sua sensibile dicotomia, composta dalla matrice religiosa e culturale ebraica unitamente agli esiti della conoscenza di derivazione greca, che, in realtà, nelle sue opere si coglie in modo più velato perché più nascosta, acquisisce forza, da un lato, dal suo vissuto biografico e, dall'altro, dall'ispirazione che egli trae dallo studio dei grandi uomini del passato che lo affascinano.
Da questo concetto di arte, Ravà declina poi il ruolo dell'artista: egli deve sentire la necessità di rapportarsi al prossimo, cercando di esprimere idee per le quali la sola comunicazione verbale non è sufficiente. E in ciò riesce solo mantenendo legata la quotidianità ordinaria alla propria creatività, perseguendo sempre lo scopo di vivere per generare arte e, viceversa, di generare arte per vivere, anche a costo di sacrificare, se necessario, gli affetti familiari. Dunque questo rapporto vita-arte assume una dimensione globale e totalizzante, tanto da permettere all'artista, tramite la sua intuizione, di trarre spunti dal dato reale e/o naturale che lo circonda, senza però, come facevano i romantici, stabilire una fuorviante simbiosi con esso.
Ed è proprio questa simbiosi vita-arte, unitamente agli input provenienti dal mondo esterno, che ha permesso a Ravà di creare un personale linguaggio visivo atto a concretizzare iconicamente e tangibilmente le sue istanze intellettuali e creative. Esso perciò non è il frutto di mera casualità, ma deriva da un percorso biografico nel quale sono riscontrabili alcune tappe temporali fondamentali. Agli inizi della sua carriera frequenta il mondo della calcografia approfondendone le svariate versatilità ideali ed espressive, tanto che giungerà ad  usare un segno, da lui inteso come “racchiuso in sé” perché elemento inequivocabile, capace di frantumare anche le parti più minute del soggetto. Successivamente egli si approccia allo studio della geometria teorica nella quale intravede la possibilità, quasi per paradosso, di frantumare le forme costituenti i dipinti giungendo  a costruzioni geometriche intrise di echi optical. Sollecitato poi da nuove istanze, modifica anche il  colore passando dalla policromia alla tri/bicromia e sfumando le immagini grazie alla sovrapposizione di campiture per creare effetto prospettico, seguendo una modalità mutuata dalla fotografia. 
Le progressioni e compenetrazioni di queste fasi artistiche, gli permettono si inventare un personale alfabeto. Esso si impernia sulla singola lettera ebraica intesa come una forma costitutiva, una sorta di mattone che, utilizzata secondo una successione, origina delle parole le quali, a loro volta, edificano il dipinto. Ai lessemi Ravà aggiunge progressivamente anche i numeri, prima casuali, poi inseriti in un testo logico, che arricchiscono maggiormente la grafia di significati simbolici. Tale scrittura è la confermata testimonianza del rapporto tra arte-cultura e vita che permea l'artista: infatti essa sblocca una situazione di malessere personale presente in lui, provocando un cambiamento così epocale da inaugurare positive novità. 
Le lettere ed i numeri, che sul piano visivo divengono macchie di colore interpretate, sono stati dunque per Ravà la scintilla per una nuova via e sono il frutto di lenta evoluzione da cui si palesano significative ponderazioni ideali ed intellettuali costantemente intuibili nelle sue opere. Da questi studi emergono rimandi ad una moltitudine di elementi razionali, emozionali o contemplativi, quali: la fisica nucleare, intesa come conoscenza specifica della relatività della natura, partendo dal micro per arrivare al macro cosmo; la matematica, intesa come processo di senso tangibile e non solo quale entità teorica ed astratta; il connubio tra geometria ed ottica, usato come altra modalità sensoriale, tanto che l'artista imposta le sue opere sulla percezione binoculare grazie ad interventi su foto a grandangolo che trasformano l'approccio visivo in una dimensione simbolica, ma pur sempre reale, nella quale si riscontra un valore concettuale. Non mancano poi istanze vicine all'alchimia, usata come una sorta di prescienza che induce all'interpretazione di altro mondo cognitivo, dalle forti valenze simboliche e misteriche. 
Oltre a ciò, va aggiunto che Ravà, all'interno del suo alfabeto, usa il calcolo matematico come fine e concepisce la geometria come mezzo per riscontrare le coincidenze in senso deterministico, ma mai dogmatico, ricavate dall'interpretazione dalla “ghematrià” (“...ovvero il sistema ebraico di permutazione tra parole e numeri impiegato per decrittare il significato celato e mistico dei testi” come afferma M.L. Trevisan). Così facendo, egli riesce ad aumentare l'impatto emotivo delle sue opere determinando nell'osservatore un positivo spiazzamento (condizione necessaria ad un'opera d'arte per crescere e far crescere chi la guarda), mai sgradevole, in grado di attirarlo, affascinandolo. “L'opera d'arte – dice l'artista – deve destare in chi la guarda uno stupore come  l'improbabile sesta riga del pentagramma”.   
  Ma i tentativi di comprendere queste coincidenze celano in Ravà il fulcro sostanziale del suo fare artistico. Essi non vogliono fornire risposte o consolidare certezze, ma marcano da parte dell'artista il desiderio di conoscenza. Queste due parole, nonché i profondi significati che esse nascondono, divengono dunque il soggetto ideale che fa da substrato all'opera di Ravà e lo sono al tal punto che egli vi ha dedicato la vita e piegato la sua creatività per dar loro sostanza ed essenza. Basta solo analizzare etimologicamente i lessemi per comprendere come siano una fonte inesauribile di ispirazione. Infatti egli metaforicamente desidera ardentemente – dal latino, de-sidera che significa letteralmente “mancanza di stelle” ed interpretato come appetire a qualcosa che manca – la conoscenza che ancora non ha raggiunto e si adopera in tutti i modi per carpirla, ovvero farla sua, ma non con astuzia o inganno bensì con ragione, sentimento ed estro. La conoscenza quindi per Ravà diviene il fine ultimo esistenziale. E perciò non gli interessa come essa si possa definire (già in epoca greca questa veniva concepita suddivisa tra prodotto dell'indagine introspettiva, da un lato, e derivazione sensoriale, dall'altro) ma si concentra sul fatto che essa sussiste solo se intuita come percorso di crescita dell'uomo. 
É chiaro che i tentativi di percorrere questo cammino verso la trascendenza, avvicinandosi ad una dimensione globale dalle infinite sfaccettature, si declinano secondo le necessità e le intenzionalità proprie di ogni essere umano, rinnovandosi nel momento stesso in cui quest'ultimo riesce a comprendere il sapere. Infatti la conquista di ogni livello di consapevolezza fa avvertire subito la necessità di protendersi verso un nuovo ed ulteriore stadio di essa, innescando un processo di crescita sapienziale infinito. E tale aspirazione al sapere porta l'artista stesso a scorgere la strada verso il sacro ed il divino, come confermano anche gli studi compiuti da Ravà inerenti la mistica ebraica imperniata sulla cabala, percorso conoscitivo, iniziatico e parallelo capace di influenzare anche il mondo scientifico ed umanistico.   
L'opera  d'arte a prescindere che sia realistica, paesaggistica, simbolica o astratta, nonché bidimensionale o tridimensionale, diviene quindi un punto d'incontro tra il soggetto ideale di Ravà e l'osservatore. Essa, nel suo insieme, assume una valenza semiologica tale da produrre una condizione psicologica intrisa di un'inesorabile voglia di insondabile e di emozioni, atta a favorire in chi la guarda un percorso iniziatico che induce al sapere autocosciente. 
Ravà, sospinto da uno spirito ironico e talvolta scherzoso, invita in ultima analisi lo spettatore a scovare la seconda verità, ovvero quella nascosta, che travalica il dato contingente ed oggettivo, cosicché egli possa crescere sia cognitivamente sia, soprattutto, spiritualmente.

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